“Avere una filosofia significa sapere come amare e sapere a chi offrire questo amore, e se lo dispensi a tutti devi fare il prete che dice “Si figliolo” o “Si figliola” o “Dio ti benedica”. Ma la gente non vive in questo modo, si vive con la rabbia, l’ostilità, i problemi, con i pochi soldi; insomma delusioni terribili nel corso di una vita. Quindi quello di cui la gente ha bisogno sono dei principi; credo che ciò di cui tutti hanno bisogno si possa riassumere in questo modo di dire: dove e come io posso amare posso essere innamorato, così io posso vivere in pace. Ed è per questo motivo che ho bisogno di personaggi per analizzare veramente l’amore, discuterlo, distruggerlo, annientarlo. Ho bisogno che i protagonisti si facciano male l’un l’altro, che facciano tutto questo in quella guerra, in quella polemica di parole ed immagini che è la vita. Tutto il resto non mi riguarda veramente; può interessare ad altri, ma io – lo so – ho una idea fissa: tutto ciò che mi interessa è l’amore.” (John Cassavetes)
Nel 2011 l’Unesco ha istituito l’International Jazz Day, individuando nel 30 aprile di ogni anno il giorno designato per “far crescere nella comunità internazionale la consapevolezza delle qualità del jazz, come mezzo formativo, come forza di pace, di unità, di dialogo e di più stretta cooperazione fra le persone”, in tal modo auspicando che “molti governi, associazioni, strutture didattiche e privati cittadini attualmente impegnati nella promozione del jazz cogliessero quest’opportunità per incoraggiare un maggiore apprezzamento non solo per questa musica, ma per il contributo che può dare allo sviluppo di società più inclusive”, così da poter celebrare non solo il linguaggio musicale in se stesso, ma anche e soprattutto la sua innata propensione libertaria e democratica, sublimata in quell’individuare le sue migliori qualità e risorse nella perfetta miscellanea tra estemporanea esternazione dell’espressione individuale, immediata accoglienza di punti di vista differenti ed, infine, totale superamento di qualsivoglia barriera etnica, geografica e culturale, nel tentativo di dar vita ad un idioma che possa – per sua stessa definizione – essere universale.
In netta contrapposizione con le decine e decine di manifestazioni che, in tale data, usurpano e tradiscono l’iniziale dichiarazione d’intenti, l’Associazione “Nel gioco del jazz” si è – come sempre – distinta, regalandoci, con l’ultimo appuntamento della sua fortunatissima stagione, l’inedita produzione intitolata “Jazzavetes”, un concerto dedicato, a novant’anni dalla nascita e a trenta dalla scomparsa, all’inarrivabile genio di John Cassavetes, l’attore, autore e regista cinematografico americano, ma di origini greche, universalmente ritenuto il padre del “cinema indipendente” per quelle sue “sole” dodici geniali, dirette, sincere, oneste, appassionate, coraggiose opere cinematografiche che hanno, di fatto, inaugurato un nuovo modo di fare cinema, lontane anni luce tanto dall’egemonia hollywoodiana quanto da ogni manierismo ed intellettualismo artistico, realizzate con budget minimi, scevre da sceneggiature rigide, incentrate sulla massima improvvisazione degli attori, scelti tra parenti, con la moglie Gena Rowlands sempre in prima fila, ed amici, tra cui Ben Gazzara, Peter Falk e Seymour Cassel. Questo desiderio di votarsi all’estemporaneità, irrinunciabile peculiarità del cinema di Cassavetes, non poteva non richiamare il concetto stesso di “composizione istantanea” alla base del jazz, amore esponenzialmente sublimato nei primi due titoli della sua produzione, “Ombre (Shadows)” del 1959 e “Blues di mezzanotte (Too late blues)” del 1961; soprattutto nella tribolata gestazione dell’opera prima, in eterno conflitto tra scrittura ed improvvisazione (il film si chiude con la scritta: “The film you have just seen was an improvisation”) al pari della colonna sonora in parte creata dal genio di Charles Mingus, i critici ritrovarono una piena corrispondenza tra la nuova frontiera registica e le qualità strettamente jazzistiche: “inserimento del tempo vissuto all’interno dell’inquadratura, apertura al feeling del momento, lavoro sull’intensità e sull’inflessione del suono come dell’immagine, rifiuto di una subordinazione alla trascendenza della scrittura, della partitura o del copione”.
L’omaggio realizzato dal Maestro Roberto Ottaviano, splendido padrone di casa, assieme a Donato Romito e Pietro Laera, dell’Associazione barese, ha magicamente saputo richiamare, forse anche per una malcelata corrispondenza di artistici sensi, il Cassavetes pensiero, riuscendo finanche ad abbattere la barriera tra musica e pellicola, evitando, per una volta, che la prima fosse, come sempre accade, asservita alla seconda; introdotti dall’ottima analisi di Fabrizio Versienti, Filippo Vignato al trombone, Alexander Hawkins al pianoforte, Danilo Gallo al contrabbasso e Hamid Drake alla batteria, hanno dato vita ad una sequenza di dieci interessantissime composizioni inedite dello stesso Ottaviano, magnificamente destreggiatosi tra sax soprano e tenore, un vero e proprio concept di altissimo livello che l’artista barese ha realizzato lasciando, ancora una volta, parlare il cuore e l’anima, senza formalismi, al servizio di una musica vitale, emozionante, vera, non abbandonandosi al richiamo delle sirene del facile mercato che avrebbero di certo preferito una semplice replica delle colonne sonore dei suddetti film, né tantomeno, come ormai vuole una abusata – e spesso vituperata – tendenza, producendosi nella sonorizzazione delle immagini che scorrevano sul grande schermo posto sul palco del Teatro Forma di Bari, ma permettendo, da par suo, alle note di incastonarsi nella memoria di ogni spettatore come preziose gemme nell’altrettanto raro diadema lasciatoci in eredità dall’arte di Cassavetes, così da donargli nuova ed accecante luce.
Pasquale Attolico