Non si può non rimanere incuriositi dinanzi a questo libro.
Il colore della sua copertina, un azzurro che sa di mare, quell’ albero che poi sembra una mano tesa, e poi il quel titolo: “La pelle in cui abito”.
La prima percezione è quella della carnalità che dovrebbe caratterizzare il rapporto con i libri, con la lettura: quel bisogno di toccarli con le mani, il desiderio di “sentire” le storie narrate dentro di sé, tutt’uno con la propria vita.
Proprio questo accade con il libro di Kader Diabate e Giancarlo Visitilli.
L’intreccio di due esistenze, quella narrata (Kader) e quella narrante (Giancarlo) diventa qualcosa di “tangibile “, destinato ad abitarti dentro, a farsi corpo con te , aiutati anche dalla trovata sorprendente di titolare i capitoli con parti del corpo, con la chiosa a commento mai senza senso.
Perché se di libri/testimonianze su storie di migrazioni e di arrivi ce ne sono tanti, questo colpisce perché innanzitutto è un libro “con”; perché racconta una storia dalla profonda valenza simbolica ,che non si limita all’arrivo di Kader nella nostra Puglia, alla descrizione del suo viaggio ed alle sofferenze che l’hanno preceduto ed accompagnato fino ad un oggi di speranza.
No, qui si parla della storia dell’umanità, che si fa carne in Kader ma, in realtà, in ognuno di noi.
Quella che ci viene raccontata, in un modo del tutto fluido, con una scrittura piena di suoni, di immagini, con un sottofondo di intrinseca poesia, è la storia di una possibilità che ci deve essere data, ancora oggi.
Quella del restare umani, nonostante tutto.
Nonostante la fame e le miserie di ogni genere, nonostante le torture, delle carceri della Libia per Kader come delle tante carceri in giro dentro e fuori la vita di tanti di noi, nonostante i tanti Nord e i tanti Sud e le loro profonde diseguaglianze, alla fine è certamente consegnata al lettore una speranza di vita e di bellezza.
La storia di Kader, che Giancarlo Visitilli ci racconta con parole che si fanno carezze, ha avuto un prima e un dopo ma ha soprattutto un ora e un domani, pezzi di un puzzle che va ricostruendosi, tutti legati da un sottile ma robustissimo filo.
Sì, perché alla fine quel che resta è che forse con la lettura, con un sapere condiviso che istruisce ed educa , con un‘accoglienza fatta di piccoli grandi gesti, ci si può salvare e si può restare umani.
Solo allora la pelle in cui ciascuno di noi abita potrà risplendere di dignità.
Lilli Arbore