L’appuntamento per questa intervista era già stato fissato: sabato 7 marzo, in occasione del concerto di Paolo Benvegnù al Garage Sound di Bari. Eravamo d’accordo: ci vediamo dopo il sound check.
Di lì a poco, tuttavia, l’emergenza epidemiologica da Covid-19 avrebbe sospeso anche i concerti.
Adesso diventa l’occasione per tornare a parlare di un album, “Dell’Odio dell’Innocenza”, pubblicato da Black Candy Records lo scorso marzo, in un periodo davvero poco propizio, considerate l’assenza di tour promozionale e la distribuzione condizionata dal lockdown, ma la cui bellezza merita un’attenzione senza tempo (ascoltate “L’infinito, pt.2” e troverete la chiave per entrare nella grazia di questo album).
Senza tempo, come le emozioni dispensate dall’intero percorso artistico di Paolo Benvegnù, sempre denso e vibrante di ricerca e sperimentazioni, dal rock contaminato di pop, jazz e new wave degli Scisma, al cantautorato della sua carriera solista, meravigliosamente sospeso tra gli abbagli delle patinate produzioni da classifica e le paludi della spocchia conformista dell’indie.
Senza tempo, come molte tra le riflessioni scaturite dal confronto che segue.
In passato hai dichiarato che, col senno di poi, avresti potuto fare uscire in un triplo LP “Hermann”, “Earth Hotel” e “H3+”, considerato che alla base c’era un’indagine, rispettivamente, sulla storia dell’uomo, sull’uomo proiettato nei suoi mondi interiori, sull’uomo proiettato (e disciolto) nell’universo. Come si colloca rispetto a questa lunga e approfondita ricerca il tuo nuovo lavoro “Dell’Odio dell’Innocenza”? La disciplina dell’attesa e del silenzio di cui parli a proposito del singolo “Pietre” è l’inizio di un nuovo viaggio o la dimensione creativa a cui sei giunto al termine di quella trilogia?
“Non riesco a non stupirmi di ogni cosa”. Il mio Maestro elementare Giuseppe Pierri era uso dire spesso questa frase. Inultile dire che per me è diventato un diktat, perciò a questa domanda rispondo come penso potrebbe fare lui, mio formatore e plasmante nella non parzialità.
Percepisco Tutto come più complesso e pure più semplice di come lo Sento. Percepiamo troppo poco rispetto a ciò che è. Viviamo nel Senso parziale delle cose. Ecco che così posso affermare che la mia stupida ed inutile ricerca verte su questo: udire l’inaudibile, percepire l’impercettibile, esprimere l’inesprimibile etc.. etc..
Così, la trilogia dell’ H (lettera muta, non dimentichiamolo) e questo nuovo episodio sono assolutamente legate. Così come tutto ciò che mi è fortunatamente capitato di vivere e di cercare di divinare da Armstrong in poi. E’ sempre lo stesso libro, con capitoli diversi. Sono episodi collettivi, ovvero di un gruppo di esseri umani di cui io sono colui che sceglie la cornice. Probabilmente consequenziali l’una all’altra. Dell’Odio dell’Innocenza è perciò risibilmente importante, tangibilmente inutile.
Forse non è più tempo per pensarsi un’Opera. Forse è proprio ora di Sentirsi Altro. Immagino che le Pietre siano mute, non capibili e valutabili da noi, per loro scelta. Penso che la Materia tutta possieda misteri da noi misurabili ma non interpretabili. Così mi sento un uomo antico. Ma non per Senso del Magico, bensì per impotenza.
Goethe affermava che non c’è nulla di più sicuro dell’arte, per sfuggire al mondo e che nulla è meglio dell’arte, per entrare in contatto con il mondo. Viene da pensare a un concetto di arte pressochè immanente… Personalmente ho invece l’impressione che si vada sempre più nella direzione esattamente opposta. Tu ti sei spesso soffermato sul concetto di “intrattenimento musicale” e sulla speranza che col passare degli anni la musica possa tornare ad occupare un ruolo centrale nella cultura di questo Paese. Quali sono le tue sensazioni, oggi, al riguardo?
Ciò che gli uomini e le donne chiamano arte è un meraviglioso distanziatore del reale. Una sorta di Gioco serissimo compiuto da adulti, che poi nel tempo è diventato altro. Divagazione ed intrattenimento, sconfinamento nell’idiozia, orinando stupidaggini facendole passare come Mestiere. Mestierante è già un termine orrendo. Ma Mestatore lo è ancora di più, e molti che si professano Artisti lo sono. Mestatori, Sofisti, Ingannatori.
L’Arte è nella pioggia che cade, nei gesti inconsci degli infanti, nella rapsodia di ogni storia umana, nelle cime infinite innevate, nelle ginestre attaccate alla vita con le radici. Potrei andare avanti per sempre, citando l’Infinito del poco che sono. Perciò l’Arte è vicina, contemplabile, per me, ma contemporaneamente lontanissima dagli esseri umani. Che possono invece impegnarsi nelle loro attività diventando artigiani. Michelangelo diceva di sè che era un Artigiano. Non è un dispregiativo.
Così come la resa all’Assoluto che alimenta le divinazioni non è una sconfitta, ma un dato di fatto. Non è un rapporto di forze.
Poi, l’intrattenimento. Ma è mai possibile che bisogna intrattenere le anime annoiate a tutti i costi?
Lasciamo ognuno nella propria Benedetta Noia, così che la stessa serva da carburante per le intuizioni…
Detto questo, la mia sensazione è quella di una retta tangente al centro della parzialità umana. Senza una direzione, dolcemente centrifuga.
Se gli esseri umani sono felici di essere addestrati da aguzzini, buon per loro.
Io preferisco i Silenzi. Ed i Custodi.
Sin dai tempi degli Scisma, il tuo eclettismo e la tua complessa profondità artistica ti hanno accompagnato in un viaggio che ha attraversato una serie di forme di espressione che non si limitano alla musica ma che comprendono anche il teatro e la letteratura. Quali sono state le tappe che più ti hanno segnato e cambiato? Hai mai avuto occasione o voglia di confrontarti con la scrittura di colonne sonore?
Ci sono giorni, per ogni essere umano, che sono cruciali. Io ne ho avuti molti.
Dalle perdite all’insensatezza della mia stolidità nel non comprenderle, al profumo delle rose sul Lago di Garda a maggio. Delle olive a macerare ad ottobre. Gli occhi dell’abisso ricercato, la Gioia stupefacente del Nuovo. Tutto concorre all’ottica di un uomo.
Non riesco a distanziare felicità e delusioni, Armonia e miseria. Tutto è uno. Deve essere la vecchiezza.
Ho già composto colonne sonore specialmente notturne, camminando in centinaia di posti nel mondo. E sono tutte sbagliate ed invadenti. Ma una volta ho suonato in alta montagna. Piano, senza disturbare. Ho guardato gli occhi di un giovane cervo. Sembrava ridere.
Aveva gli occhi di mia madre.
In un tuo brano contenuto in “Hermann”, “Il mare è bellissimo”, si fa spazio tutto l’incanto della contemplazione, non ripiegata tuttavia su sé stessa, bensì tesa alla necessità di riallacciare i contatti con la natura, di riconoscerne l’immensità, rispetto alla nostra trascurabile, supponente finitezza. Cosa credi possa finalmente spingerci a riagganciare ritmi più rallentati e ad una dimensione collettiva ecosostenibile e realmente solidale? Impareremo qualcosa da questo periodo in cui l’economia viene disarcionata dalla salute pubblica e in cui i governi antepongono la difesa della comunità, alle garanzie del PIL? Oppure torneremo a tempi veloci, aridi e feroci e la contemplazione sarà sempre più una dimensione inevitabilmente e risolutivamente individuale, occasione resistente e consolatoria per coltivare sé stessi, utile, come diceva Pirandello, a comprendere quanto misere e vane siano le ragioni del nostro tormento, se solo sollevassimo lo sguardo al soffitto di stelle?
Non impareremo niente di nuovo. Almeno non chi ridarà la frusta ed il morso agli uomini.
Ragionare per sezioni, ahimè, non è più da matematici ma da sciacalli.
Sezione di profitto. Sezione da completare di Frustrazione. Sezione di desiderio infausto da appagare e da mostrare, sezione di Sacro solo nei musei e mai nell’Atto di Vita.
Una grandinata infinita di inutili competenze che riescono a far sopravvivere non pensando alla fine.
E invece dovremmo pensarci come frecce ferme, senza bersaglio, tese e felici di essere state in un arco, senza fine e senza inizio. Tutto esiste, nella Gioia profonda e nell’impossibilità di tenerla a sé, ma anche non c’è. Ed è Tutto vero, anche se non c’è niente.
E noi, folli, a farci letteratura da quattro soldi.
Per concludere torniamo alla prima domanda. A proposito del nuovo singolo “Pietre”, hai dichiarato che hai imparato a desiderare soltanto quando hai imparato ad attendere. Qual è oggi il più grande desiderio di Paolo Benvegnù?
Vorrei Ridere e Piangere nel Vento come fa mia figlia.
Vanni La Guardia