“Succede che la vita faccia ritornare sentimenti che si pensava fossero per sempre sopiti, che faccia risvegliare quello che involontariamente è stato messo a tacere. E allora, non si può più cambiare strada: la verità si impone e lo fa in modo forte e chiaro. Il cammino tortuoso, fatto di impedimenti, deviazioni e vicoli ciechi, appare adesso più complicato di quando lo si è percorso. Sembra che sia stata disputata una corsa impari, in cui alcune volte sono comparse barriere invisibili e imprevedibili, dislocate qua e là; una corsa per la quale qualche concorrente ha conquistato, senza alcun merito reale, il diritto di partire con un vantaggio ingiustificato.”
Ho sempre pensato che intervistare uno scrittore fosse un’impresa difficilissima, soprattutto nel tentativo di proporgli domande intelligenti e prendere appunti nello stesso frangente. Bene, la mia intervista con la Professoressa Carla Petrocelli, docente di Storia della rivoluzione digitale presso l’Università di Bari, a margine della pubblicazione del libro “Il computer è donna” (Edizioni Dedalo) non è stata ardua, ma non ha avuto il solito iter, non ha seguito il canonico rituale, al punto che, dopo i primi attimi di conversazione, ho deciso di smettere di porle domande precise e – ancor meno “giornalisticamente” – di non prendere più molti appunti, presagendo che quella si sarebbe trasformata in una delle più belle chiacchierate della mia vita.
Eppure ero partita con le migliori intenzioni, anche perché il libro in questione, definito come “la breve storia dell’informatica al femminile”, aveva stuzzicato il mio interesse professionale, ma quando l’altra mattina, davanti ad un caffè e un croissant, l’immagine austera che avevo della esaminatrice del pensiero scientifico moderno, specializzata nello studio dell’evoluzione del calcolo automatico e, in particolare, sul rapporto tra uomo e tecnologia e sulle sue ripercussioni antropologiche, ha lasciato immediatamente il posto ad una donna di rara sensibilità, estremamente piacevole da ascoltare, appassionatamente innamorata della sua creatura scientifica e letteraria, poco incline alla formale intervista, ma più propensa alla condivisione di idee, pensieri ed esperienze, nella continua ricerca di possibili soluzioni.
Essendo una grande appassionata di testi che analizzano la “Storia della Scienza”, all’autrice di numerosi contributi scientifici dedicati alla storia dei linguaggi di programmazione e ai protagonisti dell’informatica, avevo pensato di porre la domanda usuale d’apertura: “Mi piacerebbe conoscere la genesi del libro, qual è il punto di vista che l’ha portata ad affrontare la sua ricerca”.
Non ve ne è stato bisogno perché Carla Petrocelli ha cominciato immediatamente a raccontare, con un approccio talmente entusiasta da non permettere di evitare l’immedesimazione.
“È noto a tutti che in meno di 60 anni la tecnologia e l’informatica sono diventati quasi gli unici protagonisti della nostra quotidianità, di cui non riusciamo a fare a meno. L’informatica o scienza dell’informazione è una giovane disciplina e, rispetto alle altre scientifiche, sembrava priva di un percorso storico significativo, quindi inutile da raccontare. Ma come ogni altra scienza, l’informatica è un processo creativo dell’uomo costellato da successi, dubbi, domande, sconfitte e non è possibile che di tutto questo ci siano poche tracce. A molti è nota solo la storia di Steve Jobs, se si è fortunati anche quella di Bill Gates. Dai documenti si sa che, aspetto curioso e di radice antica, l’uomo ha cercato sempre di realizzare dei dispositivi di calcolo che lo liberassero da noiose e ripetute mansioni, ma che non riuscendo a realizzarli trova chi può fare complicati e lunghi calcoli al suo posto, le donne. Quindi la ricerca si fa sfida.”
Ed è qui che comprendo che il libro, guidando il lettore nel percorso avventuroso della nascita dell’informatica, in realtà presenta due storie parallele, una delle quali qualcuno ha deciso deliberatamente di cancellare; l’illuminazione rende istantaneamente le vicende narrate molto più interessanti ai miei occhi: Ada Lovelace, la figlia di Lord Byron, Grace Hopper, le Eniac Girls, Hedy Lamarr e tutte le altre vengono immortalate come protagoniste spesso necessarie ed insostituibili, donne che hanno in comune caratteristiche particolari quali intuito, organizzazione e fantasia.
“Mi ha incuriosito un passaggio del libro, secondo cui le donne non scelgono ma approfittano delle opportunità. Vuol dire che i maschi scelgono, le donne no?” chiedo.
“Le protagoniste che ho incontrato nella mia ricerca non sono scienziate per caso, ma talenti che acquistano ancora più interesse se non si prescinde dalle loro attitudini, dalle loro competenze, dalle forze sociali culturali che indubbiamente hanno influito sulle loro vite, hanno spesso rinunciato a se stesse e colto l’occasione per realizzare qualcosa che ancora non era stato pensato o costruito. Ma questa occasione si è esaurita nel tempo a causa di una inversione degli eventi: chi si è distinta per intuito e sensibilità si è poi nascosta dietro pseudonimi maschili, altre chiamate ad una nuova vita, in quanto avevano i requisiti giusti anche per sostituire gli uomini al fronte, per poi ritornare alla quotidianità di sempre a fine conflitto, altre ancora sono state inesorabilmente escluse o ignorate quando era il momento di ottenere riconoscimenti per il lavoro svolto. Tutte hanno colto delle occasioni, semplicemente perché era il loro momento di svolta ed avevano passione, costanza e pazienza per seguire un’intuizione, un’idea, un obiettivo. Ma era troppo presto, semplicemente la generazione non era pronta ad accettare un ruolo diverso per la donna. Ad esempio, le Eniac Girls, che avevano sperimentato di poter essere indipendenti economicamente realizzando il loro sogno, sono state viste come rivoluzionarie, quasi a voler rovesciare quello status quo di genere che vigeva prima della guerra, e minacciate affinché abbandonassero il loro posto agli uomini di ritorno dalla guerra. Gli uomini avevano creato la tecnologia, la tecnologia era dunque maschile. E le donne non sono state pronte a cogliere altre occasioni come è accaduto per le bibliotecarie, a cui furono assegnati compiti di routine, quindi di poco valore, al contrario degli uomini scelti minuziosamente per le loro conoscenze tecnologiche o posizione di leadership.”
La storia, si sa, non è mai stata gentile con noi donne. Non che le cose siano poi molto cambiate, come giustamente afferma Mario Tozzi nella gradevolissima prefazione al libro, evidenziando aspetti analoghi anche nella nostra generazione: “In ogni occasione di lavoro in cui mi sono trovato, la maggioranza dei lavoratori e dei quadri sono donne, ma i dirigenti sono invariabilmente uomini. E, a parità di grado gerarchico, le donne sono pure pagate meno dei loro corrispondenti uomini”.
“Eppure – incalzo la Professoressa – sin da quando ne ho memoria, l’informatica è stata riconosciuta come un settore principalmente maschile, con continui bombardamenti di informazioni, soprattutto pubblicitarie, su Jobs, Zuckerberg, Gates ed altri. Lo stesso archetipo dello smanettone compulsivo da tastiera, il “nerd” per intenderci, è spesso raffigurato da un maschietto poco incline a perdere il suo tempo al di fuori di una stanza e uno schermo. Non ci vorrà dire che anche questo per lei è un luogo comune.”
“Si, lo è diventato perché la storia dell’evoluzione dell’informatica è stata manomessa. L’interesse maschile per le preziose mansioni femminili inizia negli anni ‘50 quando si accorgono che, perché un computer funzioni, bisogna programmarlo, e per far ciò si richiedeva intelligenza e ingegno, requisiti ritenuti femminili e finanche di secondo ordine. La programmazione stava cominciando ad acquisire una reputazione migliore, superando quella della progettazione. Gli stessi termini hard e soft cambiano, da termini di genere diventano utili a differenziare le parti dei computer. Più i computer si ramificavano in ambiti lavorativi del governo e delle industrie, più le donne venivano escluse dal settore della programmazione, sviluppatasi proprio grazie al loro ingegno, salvo poi ritenerle improvvisamente incapaci di competere con i colleghi uomini.”
“Dunque lei trova che la storia dell’informatica sia ancora da raccontare?”
“Assolutamente si. Innanzitutto perché è noto che, attraverso il racconto delle imprese degli scienziati, si possa insegnare molto più della semplice regola o legge scientifica, educando i giovani, facendo sì che comprendano come la passione e l’ostinazione possano far superare il senso di sconfitta di fronte ai fallimenti. Inoltre, raccontare dei protagonisti è il modo per eccellenza, utilizzato sin dai tempi antichi, per tramandare, come fossero documenti, storie e vite che altrimenti resterebbero sconosciute. Raccontare più che insegnare. Quando l’Università di Bari aprì le iscrizioni ad informatica” continua a raccontarmi Carla Petrocelli “il numero delle ragazze iscritte era proporzionato, se non superiore a quello dei ragazzi. Ma è andato diminuendo drasticamente negli anni. Questo perché all’inizio chi si iscriveva, soprattutto noi donne, non sapevamo bene come si sarebbe evoluto il futuro, era tutto da costruire e realizzare. Della vera storia dei protagonisti dell’informatica non se ne sapeva nulla. Forse ad averla conosciuta, ci sarebbero stati degli esempi da seguire o emulare, ciò avrebbe rafforzato la consapevolezza che avremmo potuto farcela al pari dei maschi, perché tra pubblicità ed informazioni veicolate anche attraverso fumetti e film, la figura del “nerd” era sempre più rappresentativa del sesso maschile.”
Ed ecco che viene alla luce la storia nascosta del libro di Carla Petrocelli, il suo aspetto più rivoluzionario, la denuncia nei confronti di chi ha volutamente sminuito l’intelligenza e la capacità femminile in nome di una società che non è mai riuscita a fare un salto di qualità; ma, per dirla ancora con la splendida prefazione di Mario Tozzi, forse una speranza per l’universo femminile c’è, “nel senso che finalmente si cominciano a riconoscere i loro contributi e ne emerge una storia nuova, anzi, meglio, la necessità di riscrivere la storia. A iniziare dai tempi recentissimi dell’epopea informatica che sta cambiando il nostro mondo. Un’epopea fatta dalle donne come dagli uomini. Spesso diciamo che il mondo sarebbe migliore se fosse governato dalle donne, invece che dagli uomini, ma mi pare che questi ultimi lo dicano senza crederci fino in fondo, a testimonianza di un pregiudizio difficile da sconfiggere. Magari incominciamo a provarci da questa lettura.”
Così nasce spontanea la mia ultima riflessione.
“Studiare informatica ultimamente sembra sconsigliato alle donne, anzi spesso alla donna viene associato, altro luogo comune, la sindrome dell’incapacità digitale. Noi insegnanti di scuola abbiamo un compito, quello di invertire la rotta. Ha consigli o idee da proporre ai colleghi? E alle alunne cosa direbbe?”
“L’informatica è, in sintesi, logica, quindi perché non iniziare ad insegnare a programmare ai bambini da piccoli, insegnare raccontando e divertendo, senza distinzione di genere? Successivamente far si che programmare diventi una materia per ogni ordine di scuola. Divulgare la storia dell’informatica, anche suggerendo letture come mezzo per far conoscere alle ragazze come delle donne senza esperienze si siano misurate nella realizzazione dei nascenti dispositivi di calcolo, in periodi storici in cui “femminilità” era considerata poco più di un inutile accidente.”
Quella mattina, seduta davanti ad un caffè, non avrei smesso di lasciarmi inondare dalla grande passione e dalla raffinata dialettica di Carla Petrocelli, che meriterebbe di essere ringraziata perlomeno per aver, con la sua opera, sollevato il velo di Maya e, con eleganza e dolcezza, aver reso giustizia ad alcune delle sognatrici che hanno saputo cambiare il corso della nostra storia, lasciando che queste “donne invisibili” fossero un monito per tutte le donne, noi e le giovani ragazze, spingendoci a riappropriarci di ciò che costantemente e ripetutamente ci viene negato, quello che un recente film di successo avrebbe definito “il diritto di contare”; il mio augurio è che la professoressa Petrocelli possa proseguire in questa ricerca, innanzitutto perché ci sono ancora molte donne “invisibili” da rivelare al mondo, ma anche perchè – egoisticamente – perchè non vedo l’ora che ci siano altre occasioni in cui ci si possa confrontare sul tema.
Per quanto mi riguarda, io mi sentirò debitrice a vita con Evelyn Berezin, per avere salvato le segretarie dal “vicolo cieco” e permesso a me di scrivere in corsivo questa intervista, come tutti imiei scritti, sul mio ipad e con un semplice tocco dello schermo tradurre il testo in stampatello, potendolo modificare centinaia di volte senza impazzire.
Maurizia Limongelli