“Il mondo è una polveriera nella quale non è vietato fumare.” (Friedrich Dürrenmatt)
Giocarsi il passato, il presente e, soprattutto, il futuro in poche ore, puntare tutto su un lancio di dadi, su di una mano di poker, su un giro di roulette che – forse troppo tardi – si rivela russa, comprendendo che la posta in gioco è la propria vita: in una società che fa della competitività una prerogativa essenziale, anche un normale colloquio di lavoro può trasformarsi in una lotta per la sopravvivenza, circostanza tanto più facile quando il colloquio è collettivo.
L’“assessment center”, come viene ormai universalmente definita questa strategia di selezione del personale da qualche tempo in voga, nelle intenzioni altro non è se non una delle possibili analisi del candidato, ritenuta utile a valutarne le capacità necessarie a svolgere un’attività professionale facendo lavoro di squadra, relazionandosi e riferendosi al proprio gruppo: saper ascoltare con tatto e sensibilità le opinioni altrui, avere un atteggiamento leale e rispettoso, riuscire a comunicare, a non perseverare nelle idee e nelle opinioni, ad evitare atteggiamenti troppo imperativi e sovrastanti, discutere e trovare, in gruppo, la soluzione ritenuta più idonea al problema, non necessariamente giungendo a risultati strabilianti, avvalorati da dati, nozioni tecniche e conoscenze eclettiche, ma riuscendo ad essere sempre propositivi, buoni mediatori che sanno accogliere spunti e suggerimenti altrui, cercando di tenere sempre ben salde le redini dell’estemporaneo gruppo sino a condurlo anche a prendere decisioni importanti per le sorti dell’azienda; in altre parole, occorre dimostrare di detenere il pieno possesso di tutte le capacità di leadership.
Tutto questo – come detto – nei propositi, mentre nella realtà, al contrario, il colloquio si trasforma in una prova spesso insostenibile ed insormontabile già nell’approccio emotivo del candidato, il quale, a partire dal momento in cui viene a conoscenza di dover affrontare la selezione con più persone sconosciute, ha la sicurezza tangibile di non essere il solo a concorrere per quella posizione lavorativa, così da fiaccarne le certezze e comprometterne la performance, ponendolo sotto una pressione il più delle volte insopportabile, elettrone impazzito costretto a muoversi, in esplosivo conflitto con i suoi simili, attorno ad un atomo che sente irraggiungibile e finanche ostile.
Con queste prerogative, basterà mettere nella stessa stanza, per esempio, Aldo, ansioso rampollo di un’imprenditrice dal passato oscuro, Fabio Maria, cinico detentore di un sapere enciclopedico che si ferma agli aforismi, Gaia, che cela dietro un’apparente solarità drammi forse anche peggiori della sua manifesta disabilità motoria, Emanuele, perfettamente a suo agio nell’analisi psicologica dei suoi avversari ma molto poco avvezzo a leggersi dentro, Linda, una vera condottiera dalla corazza impenetrabile ed inaccessibile che si è cucita addosso non solo per difendersi ma anche per nascondere le cicatrici che la vita le ha riservato a causa della sua ribellione alle familiari coercizioni religiose fondamentaliste, e Giuseppe, il più “anziano”, considerato dal gruppo già fuori dal mercato per una generazionale incapacità di tenersi al passo coi tempi, tutti asserviti all’esaminatore ed al top manager di turno, ed avrete gli interpreti di un duello all’ultimo sangue, una battaglia in cui ogni colpo è concesso, una carneficina che non ammette prigionieri né superstiti, non importa a quale prezzo, un gioco al massacro in cui, come recitava il famoso highlander, ne resterà soltanto uno, anche se qui, a differenza di quel che credono i candidati, non è in palio l’immortalità, ma, semmai, una misera ricompensa professionale, ben poca cosa se paragonata con la perdita assoluta della propria personalità, della propria verginità, della propria sensibilità, della propria umanità.
“Il Colloquio – The Assessment”, la nuovissima produzione teatrale della Compagnia Malalingua, fondata nel 2014 dagli attori e drammaturghi Marianna de Pinto e Marco Grossi, ha il coraggio di affrontare questi temi sempre scottanti con una dovizia di particolari assolutamente inedita che tradisce un monumentale lavoro preliminare di ricerca, effettuata sul campo, non solo riguardo le dinamiche sociali e psicologiche legate al mondo del lavoro, ma anche – aspetto importantissimo – puntando tanto i riflettori quanto – ci pare – il dito inquisitore sulla evoluzione/involuzione che la lingua italiana ha dovuto gradualmente ma inesorabilmente subire, soprattutto negli ultimi anni, in tali contesti, cedendo il passo ad inglesismi, tecnicismi, acronimi e abbreviazioni; rispetto a queste e ad altre attinenti tematiche, il testo pone una serie di interrogativi a cui non sempre trova soluzione, anzi talvolta nemmeno la cerca, riuscendo ad inserirli in una fitta narrazione che sembra avere tutte le carte in regola per attraversare e superare anche l’impasse del veloce trascorrere del tempo, vero pericolo e maggiore nemico per chi scrive analizzando i propri tempi (si pensi, ad esempio, a come è mutato il mercato del lavoro nell’ultimissimo periodo a causa della pandemia che ancora ci interessa).
Ma, per quel che qui ci compete, lo spettacolo scritto e diretto da Marco Grossi, con le semplici ma efficaci scene di Riccardo Mastrapasqua e luci di Claudio De Robertis, e con Monica De Giuseppe assistente alla regia e Marianna de Pinto all’organizzazione, è la migliore risposta alla – da tante parti affermata – assenza di nuovi autori nell’italica scena, dovendosi, al contrario, salutare “Il colloquio” come un sospiro di sollievo che ha riempito i nostri polmoni di spettatori, troppo spesso ricolmi di aria irrespirabile, un’opera costruita su di un ritmo serrato, incalzante, se non indiavolato, assolutamente equilibrata tra commedia e dramma, figlia di quel sublime teatro che ha radici – riguardo ai tempi di scena, non alle tematiche – nelle opere di Neil Simon, soprattutto per una particolare attenzione a non cercare mai la facile risata o l’afflizione patetica, riuscendo a svicolare sempre all’ultimo istante verso trovate inattese, dribblando il pubblico inerme che continua a ridere – e molto anche – mentre addosso gli piovono pietre, il più delle volte pesanti come macigni, che lo condurranno, dopo svariati colpi di scena, sino all’inaspettato finale aperto, che naturalmente non sveleremo.
Non vi è dubbio che, per realizzare un progetto di tale portata, occorra poter contare su di un gruppo di attori straordinari, con una gamma interpretativa già completa e compiuta, qualità che non mancano agli ottimi interpreti; infatti, mentre Alessandro Anglani (l’esaminatore) e Savino Maria Italiano (il top manager) appaiono, probabilmente anche per ragioni di copione, ancora un po’ defilati, non vi è dubbio che Giuseppe Scoditti (Aldo), Fabrizio Lombardo (Fabio Maria), Olga Mascolo (Gaia), William Volpicella (Emanuele), Valentina Gadaleta (Linda), che ha dato il suo apporto alla pièce anche in veste di psicologa del lavoro, analizzando le dinamiche emotive dei singoli e del gruppo, e lo stesso Marco Grossi (Giuseppe), realizzano, come fossero un sol uomo, un meccanismo perfetto già alla prima uscita assoluta che si è tenuta, con due sold out, presso la Cittadella degli Artisti di Molfetta, un blocco unico di granitica bravura, un orologio di impagabile precisione i cui componenti non hanno altra ragion d’essere se non al suo interno stesso, assolutamente convincenti e vincenti nel dichiarato intento di volerci mettere davanti ad uno specchio, fotografando senza filtri una società in continuo movimento eppure perennemente immobile, apparentemente ricca eppure miseramente povera, superficialmente colma eppure irrimediabilmente vuota.
Pasquale Attolico