“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri.” (Lorenzo Milani)
Le parole “San Marzano” – ormai lo sanno tutti – indicano una varietà di pomodoro conosciutissima nel mondo, ma nelle nostre martoriate terre del sud Italia ormai hanno assunto anche un altro significato, tanto oscuro e tetro da confondersi con le tinte fosche di quel fenomeno che vede migliaia di braccianti, stranieri ma ora anche italiani, che giungono ogni estate, soprattutto tra luglio e settembre, nel quadrato tra Foggia, Taranto, Lecce e Brindisi per la raccolta dei prelibati frutti, destinati per lo più alle aziende che li trasformano in pelati, passate e conserve alimentari, sprofondare in un girone dantesco fatto di ghetti, baraccopoli senza acqua e in condizioni igienico sanitarie terribili, vessati, umiliati, lasciati morire o finanche uccisi da caporali senza scrupoli.
In questa drammatica realtà, che di recente è stata ben fotografata dai fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio nel film “Spaccapietre” (da noi già recensito: https://www.ciranopost.com/2020/09/24/linferno-sulla-terra-esiste-la-realta-dura-e-drammatica-del-caporalato-pugliese-in-spaccapietre-dei-fratelli-gianluca-e-massimiliano-de-serio/), è facile, se non scontato, che esistenze così terribilmente provate mescolino ed amalgamino il caratteristico colore dell’“oro rosso” con il funesto ed intollerabile tributo di sangue che la terra stessa sembra richiedere loro, giungendo a storpiare il nome che qualifica l’odiato ortaggio sino a sintetizzarlo – contraendolo – in una sola parola, come forse solo i bambini saprebbero fare.
E Dino, in fin dei conti, è sempre rimasto un bambino, anzi, nonostante la sua età ormai adulta, lo è ancor più oggi che una natura matrigna lo ha privato dell’affetto della madre, l’unico essere umano che l’abbia mai realmente amato; per comprendere la sua mente, il suo cuore, il suo dolore, occorrerebbe riuscire a leggere le profonde lacerazioni dell’anima e della mente di un figlio di un Dio minore, ma se la sorte lo ha fatto nascere in un paesino collocato nel culo del sud del mondo, in quella martoriata Capitanata raramente salita agli onori degli altari per meriti, più spesso additata come esempio di illegalità, oggetto delle attenzioni della cronaca nera e giudiziaria, obbligandolo ad essere concittadino di vecchi capaci esclusivamente di fagocitare pregiudizi e sputare giudizi, che percepisce gli “altri” come un pericolo, mentre, in realtà, sono in pericolo, restando nell’immobile attesa che qualcosa cambi o, meglio, che nulla cambi mai, di gente, come direbbe Tolstòj, occupata a sedere “sulla schiena di un uomo, soffocandolo” ed a convincere se stessa e gli altri che è piena di compassione per lui e che vuole “migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile, tranne che scendere dalla sua schiena”, è più facile che quell’uomo venga aprioristicamente bollato come “lo scemo del villaggio”, un reietto per definizione, che, oltre che nei suoi ricordi e nella sua fantasia, trova un po’ di calore ed indulgenza nei suoi veri simili, non quelli che la sua appartenenza geografica gli ha assegnato, bensì quegli uomini dalla pelle di diverso colore che affollano il ghetto, gli emarginati, i ripudiati, i respinti, gli esclusi, a cui Dino, nella sua fanciullesca furbizia, deciderà di aggiungersi, sovrapponendovisi, finanche trasformandosi in uno di loro, realizzando, anche a costo della vita, la sua unica opportunità salvifica e redentrice.
Un attimo prima che la fitta nebbia della pandemia ci avvolgesse, impedendoci di frequentare luoghi visceralmente amati, abbiamo potuto assistere al secondo appuntamento della tormentata Stagione 2020/21 del Teatro Kismet di Bari, “Sammarzano”, lo splendido spettacolo del “Malmand Teatro”, prodotto dai Teatri di Bari e finalista al Premio Scenario 2019 nella sezione “Periferie”, diretto da Ivano Picciallo, coadiuvato da Marta Franceschelli, e magistralmente interpretato da Francesco Zàccaro, Adelaide di Bitonto, Giuseppe Innocente e dallo stesso Picciallo.
Facendo compiere un ulteriore salto di qualità alla sua già alta cifra stilistica ed al suo riconoscibilissimo linguaggio visivo, perfetto crocevia e compiuta miscellanea delle arti performative, prime fra tutte il Teatro della Commedia dell’Arte ed il Circo, e della genialità visionaria cui ci hanno abituati, tra gli altri, Emma Dante e Danio Manfrendini, quest’ultimo, a nostro modesto parere, qui maggiormente richiamato, la Compagnia costruisce un’opera in cui fisico e metafisico, terreno e trascendente, immagini ed immaginario si fondono, come del resto umanità e disumanità, rilevando un confine incerto e labile, proiettandoci in quell’orrendo buco nero di solitudini che tutto attrae e tramuta ed in cui, volenti o nolenti, siamo tutti – seppur inconsapevolmente – rappresentati.
Infatti, lasciando che il suo Dino (un monumentalmente empatico Francesco Zàccaro) operi per lo più partendo dalla platea, Picciallo, oltre a dimostrare di aver mandato a memoria la lezione strehleriana, altro non fa che affidarci ad una – inizialmente improbabile ma infine credibile – guida, ad un Virgilio che saprà traghettarci nel girone mefistofelico, traducendo per noi il rito macabro e impietoso che quotidianamente vi si compie ed, infine, costringendoci a giungere ad una totale transazione con la nostra stessa percezione, in un ipnotico quanto crescente gioco di rimandi che annulla la quarta parete.
Ed, in fondo, cos’è la luce che il nostro Dino si porta dietro, nell’inseparabile busta di plastica, se non una fiammella nel buio imperante, un faro che indichi la via perduta, il desiderio di un novello Diogene di poter riscoprire l’uomo, la speranza di un ritorno ad un futuro plausibile, un flebile bagliore condannato infine a spegnersi definitivamente quando il protagonista della storia, trasformandola e trasformandosi in una maschera arlecchinesca e pulcinellesca allo stesso tempo, avrà operato la sua “scelta di campo” perpetuando l’ennesimo – forse l’ultimo – escamotage per unirsi a quelle masse corporee, mascherate e, dunque, private della loro soggettività, pur di non essere completamente solo, pur di sentirsi parte di una comunità di simili, di una tribù di fratelli nella notte?
Ecco, “Sammarzano” sembra indurci impietosamente a confrontarci con una realtà che si para da sempre davanti ai nostri occhi e che fingiamo di non vedere, spingendoci a prendere posizione, a non spegnere la luce, a continuare a cercare, a raggiungere o, meglio, a creare quel non luogo in cui, come auspicava Italo Calvino, finalmente non esista “né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare”.
Pasquale Attolico