La premessa fondamentale da cui parto è che in quello che sto per scrivere non ci sono valutazioni politiche, di consenso o dissenso: non è questa la sede.
Quello che scriverò ha a che fare unicamente con le mie sensazioni e le mie emozioni, che non sono incasellabili come di destra o di sinistra.
Sabato 13 febbraio 2021, a pranzo, ero davanti alla tv, a vedere la diretta del passaggio della campanella fra Giuseppe Conte e Mario Draghi. Non ero particolarmente attenta, mangiavo, guardavo il telefono, ma ad un certo punto mi sono ritrovata ferma, immobile, ad osservare ciò che stava accadendo. Conte che aspettava sulla soglia della porta Draghi, Draghi che entra, la campanella che va da una mano all’altra, Conte che esce e viene applaudito, Conte che cerca la mano della sua compagna, Conte che se ne va, Rocco Casalino che piange.
Ferma e immobile ho sentito in modo nitidissimo che per me si stava chiudendo un capitolo, una sezione di esistenza, un anno colmo di tutto quello che sappiamo; e si stava concludendo con il cambio di Presidente del Consiglio. Un anno che si conclude e un Presidente che se ne va; quel Presidente che, senza che io lo volessi, è stato per me una specie di pater familias, il compagno del sabato sera, la persona che mi diceva cosa potevo o non potevo fare, l’incarnazione della preoccupazione e dell’aspetto emergenziale del vivere (ha fatto bene, ha fatto male, non lo so, la psiche ha delle regole sue che non calcolano il parlamento, l’economia, i ministri, le strategie politiche etc.).
Piccola sindrome dell’abbandono, come sempre mi succede quando qualcuno se ne va, ma ok, sono diventata grande, riconosco subito i sintomi, li osservo bene, li sublimo, me ne faccio una ragione molto velocemente.
Ciao Presidente, è stato bellissimo e bruttissimo, continuerò a fare la brava, le distanze, la mascherina, lei stia bene, si riposi, poteva andarmi peggio, poteva andarmi meglio, ma la ringrazio di cuore.
Ben arrivato Draghi, qua sta un discreto casino, veda lei cosa riesce a fare, buon lavoro.
Un passo indietro.
Rocco Casalino che piange.
Era di pochi giorni prima la notizia che sarebbe uscito un suo libro, “Il Portavoce”, per Edizioni Piemme.
Lo voglio, lo voglio leggere immediatamente.
Martedì 16 febbraio 2021, giorno di uscita del libro, ho già la mia copia fra le mani. La sera, sedia Ikea davanti al termosifone, piedi appoggiati in alto per prendere calore, inizio a leggere. Tempo un’oretta e mezza ero quasi a metà delle 267 pagine.
Faccio una foto del libro, la carico su Instagram e Facebook, come didascalia ci metto un “ops”, come fa la canzone di Britney Spears, “Ops, i did it again”, l’ho fatto da capo, ho fatto da capo una cosa che non dovevo fare.
Quale?
Lo scoprirò più avanti.
La biografia è scritta in modo molto coinvolto e sentito. Personalmente dubito che l’abbia scritta lui, di sua mano; sarà stato parecchio occupato negli ultimi anni e ho notato quasi una scrittura femminile, una ghostwriter donna, che probabilmente avrà rielaborato i racconti del protagonista, dandogli ordine e senso. O forse un lavoro di editing molto strutturato. Più semplicemente, non ho sentito la voce diretta di Rocco Casalino, ma una voce filtrata, ragionata, pensata, studiata. Ma questa è una cosa che succede quasi sempre con le biografie, quindi niente di male, è la prassi.
Ciò che si legge in questa autobiografia, che deve essere stata sicuramente una specie di lunga seduta di psicanalisi per lui, si può riassumere in due macro temi: il rapporto non facile con un padre violento (e la ricerca di figure maschili autorevoli) e una esplorazione continua di un posto dove stare, inteso sia come posto geografico che come posto emotivo, professionale, umano. Vive la prima parte della sua vita in Germania, sono gli anni dello studio e dell’apprendimento della cultura dell’ordine e delle regole, poi la famiglia rientra a Ceglie Messapica, il paese salentino in cui scopre l’amicizia, il sesso etero e omosessuale, il mare, gli ulivi, la libertà. Le descrizioni del paese salentino sono bellissime, sprigionano un affetto e una tenerezza non convenzionali: sinceramente non me lo aspettavo. Poi la laurea in ingegneria elettronica, il Grande Fratello, l’overdose della notorietà a tratti effimera, l’apprendistato lungo per diventare giornalista professionista, gli anni a TeleLombardia, il colpo di fulmine per il Movimento 5 Stelle di cui diventerà capo della comunicazione. E infine la carica di portavoce di Giuseppe Conte.
Era l’autunno del 2000: avevo ricevuto il mio primo cellulare e in tv veniva mandato in onda per la prima volta un programma strano, si chiamava Grande Fratello: avevo 22 anni. Il programma lo vedevo sempre, al liceo avevo letto il libro di George Orwell e capivo bene il riferimento alle telecamere che osservavano e spiavano continuamente questi concorrenti, sopravviveva chi era più furbo, più vero, chi piaceva di più alla gente.
Questi se ne dicevano e facevano di tutti i colori e io sperimentavo, per la prima volta nella mia vita, la curiosità pruriginosa per la vita degli sconosciuti, era la forma embrionale di quello che sarebbe successo qualche anno dopo, quando in tanti ci saremmo iscritti a Facebook e tutte le altre piattaforme per scoprire che il Grande Fratello siamo noi, noi che osserviamo, che mettiamo mi piace, che banniamo, che eliminiamo dal feed, che seguiamo senza farcene accorgere, che concentriamo nelle nostre dita una specie di potere egoriferito su quello che ci piace o no, questo sì, questo no, quello ok, quello mai sia.
Sono passati 21 anni dal mio primo cellulare e dal primo Grande Fratello e di uno di quei concorrenti adesso sto leggendo un libro, avidamente pure, della sua rabbia per essere additato sempre come quello del Grande Fratello, del suo bisogno di non dormire mai solo, perché ha paura della solitudine (Rocco se vuoi te lo spiego io come si fa a non avere paura di dormire soli, sono maestra cintura nera in questo), del fatto che si è dovuto arrendere all’essere gay, dell’essersi ritrovato portavoce di un Presidente del Consiglio in uno dei momenti più critici degli ultimi decenni (forse anche di più), del desiderio di essere amato, accettato, riconosciuto per le tante cose fatte e i risultati raggiunti.
Perché?
Ancora un mezzo passo indietro.
Alla sera che ho condiviso sui social la foto di questo libro.
Su quella foto i commenti sono stati diversi, per lo più mi si faceva notare la perdita di soldi e di tempo, il fatto che non fosse un libro degno.
Andando poi su Instagram ho fatto una ricerca e in effetti, ad ora almeno, di foto del libro di Rocco Casalino non ne ho stanate; nessuna book influencer al momento pervenuta, nessun esponente culturale, niente articoli su La Lettura o Robinson del fine settimana appena trascorso.
A un commento alla mia foto che mi chiedeva perché stessi leggendo il libro, ho risposto dicendo che lo stavo leggendo per l’unico motivo per cui leggo i libri, ossia perché voglio leggere una storia, voglio un inizio, uno svolgimento e una fine, voglio sapere un fatto, voglio vedere l’evoluzione di un personaggio, mi voglio incuriosire, voglio, attraverso il libro, scoprire delle cose di me. Ora, di storie ce ne sono tante, di libri milioni, solo a casa mia ne ho in attesa di essere letti una marea, in accumulazione continua, la scelta di storie è infinita, la scelta di storie pregevoli e scritte in modo sublime è vastissima e quante ne devo recuperare che ancora non ho letto.
Ma la biografia di Rocco Casalino è il mio “Ops, i did it again”, il mio “mannaggiammè, ci sono cascata di nuovo, mi è venuta una irrefrenabile voglia di leggere una cosa che l’universo mondo etichetta come kitch, trash, inutile”.
Sì, ma io adoro la cultura pop, fosse per me leggerei pure la biografia di Fabrizio Corona.
Ma perchè mi devo sentire in colpa?
Ma in colpa verso chi poi?
Cosa sto facendo di male?
Voce interiore fuori campo, riemersa direttamente dagli anni 90: Toti e Tata che urlano “la cultuuuura è un’altra coooosa”, parodiando Pinuccio Tatarella.
Mentre ero in queste riflessioni scombinate, che non me ne facevo una ragione del tempo lieto che stavo a perdere appresso al libro di Rocco Casalino, mi viene in soccorso casualmente un podcast di Wikiradio, Radio3, mandato in onda venerdì 19 febbraio, giorno dell’anniversario della morte di Umberto Eco (qui il link https://www.raiplayradio.it/audio/2020/06/WIKIRADIO—Apocalittici-e-integrati–25151b27-faec-417e-9215-6dfd91a565d3.html , è molto bello, dura 30 minuti).
La puntata si chiama “Apocalittici e Integrati”, chi parla è Filippo La Porta (quanti libri suoi studiati all’università) e si parla di questa raccolta di articoli di Umberto Eco in cui indagava il concetto di cultura di massa, di cultura di élite, di apocalittici, gli intellettuali che snobbano la cultura di massa e di integrati, coloro che invece la guardano in modo ottimista, quasi ingenuo, dove per cultura di massa si intende quel vasto gruppo di prodotti culturali di facile fruizione, intendibili da tutti; di come lui indagava la dignità e la bellezza e profondità di alcune canzoni, dei cartoni animati, dei bisogni che quei prodotti soddisfano, primo tra tutti il bisogno di intrattenimento.
Oh, ecco cosa è.
Il bisogno di intrattenimento.
E come Umberto Eco riconosce la differenza che c’è tra Dante e Topolino, anche io riconosco la differenza tra, che ne so, la storia che Salinger ci racconta di Holden e quella di un ex “gieffino” diventato dirigente della comunicazione presente agli incontri con i più importanti capi di Stato del mondo.
Sono due cose imparagonabili, Holden me lo porterò nel cuore sempre, Casalino credo si andrà a sedimentare assieme alle altre cose che ho letto, senza fare nessun danno e senza distinguersi particolarmente.
Ma il bisogno è lo stesso: l’intrattenimento, il desiderio di leggere una storia.
Il libro di Rocco Casalino l’ho finito in pochi giorni e devo dire la verità: mi è piaciuto.
Mi ha intrattenuta e mi ha raccontato una storia (vera o non vera o mezza inventata non mi interessa poi tanto, ma immagino che molte cose non le abbia potute raccontare, specie quelle relative all’ultimo anno); non mi ha fatto pentire di averlo letto, mi ha permesso di conoscere meglio una persona che, nel bene e nel male, ha avuto molto a che fare con la mia vita ultimamente.
Anzi – che cosa sto dicendo? – ha a che fare con la mia vita dal 2000.
Chi me lo doveva dire.
Alida Melacarne
Va bene va benissimo. Tutto ok. Non ho letto il libro intitolato “IL PORTAVOCE” e credo che lo.leggero’ perché, nel bene e nel male ha fatto parte della mia, della nostra vita nel terribile 2020. Ma vedendolo in televisione dalla Gruber in un pour parler assolutamente non melenso ne’ banale, ho provato le stesse sensazioni.