Quando qualche sera fa ho deciso di vedere finalmente il film “Il campione” su Netflix, ero convinta che avrei visto un lungometraggio in cui il protagonista sarebbe stato il calcio.
Ma mi sbagliavo.
È un film del 2019, che avevo accuratamente evitato, dato che il mondo del calcio non mi ha mai incuriosita o appassionata. Poi, in questo periodo, in cui spesso bisogna cercare di impegnare il tempo affinché le giornate diventino meno lente, ho pensato che avrei potuto quanto meno cominciare a vederlo. In itinere, avrei poi deciso se continuare o no.
Diciamo che una cosa, su cui mi sbagliavo, ora l’ho capita: mai giudicare un film prima di averlo visto. Perché io, questo film me lo sono guardato con grande interesse ed attenzione e l’ho apprezzato molto, nonostante la presenza di alcuni stereotipi.
“Il campione”, diretto dal giovane Leonardo D’Agostini, al suo esordio alla regia di un lungometraggio, è un film in cui il calcio è solo il pretesto per affrontare molteplici tematiche, tra le quali particolarmente importante è la difficoltà che può incontrare un ragazzo quando si trova all’improvviso a gestire milioni di euro.
Christian Ferro (Andrea Carpenzano) è un giovane calciatore della Roma con grandi capacità, il quale si trova a vivere una vita dispendiosa in una villa con piscina, con varie Lamborghini in garage, una partner assorbita dal mondo dei social, alcuni amici approfittatori che stazionano nella sua abitazione, un padre ricomparso solo grazie ai lauti guadagni del figlio. Lui, che proviene da un quartiere degradato di Roma, vuole dimostrare ai suoi amici che lo criticano (“te sei ripulito”) di non essere cambiato, nonostante il denaro che riesce a guadagnare. È per questo che compie bravate di ogni tipo, come risse e furti, fino a quando il Presidente della squadra decide di affidarlo ad un insegnante, con l’intenzione non solo di farlo studiare, ma anche e soprattutto di “raddrizzarlo”, aiutandolo ad impegnarsi a raggiungere qualcosa di più concreto e importante, come il diploma di maturità. È allora che si incontrano l’indisciplinato Christian e il professor Valerio Fioretti (Stefano Accorsi), il quale, tra lo stupore generale, ignora del tutto chi sia questa giovane promessa del calcio, che finisce spesso sui giornali, e non sempre per le sue prodezze calcistiche.
All’inizio, per il professore, lautamente pagato, sembra quasi una mission impossible, ma poi tutto diventa più semplice, soprattutto quando comprende che se un ragazzo è così sveglio da conoscere e spiegare abilmente tecniche e tattiche calcistiche tramite degli schemi, probabilmente, per fargli imparare la I guerra mondiale non basteranno i libri: ci vorrà un metodo nuovo, più adeguato alle modalità di apprendimento del giovane.
È così che si instaura un bel rapporto tra i due protagonisti, accomunati anche dall’esperienza del dolore della perdita, che entrambi hanno provato. Pian piano, il giovane Christian comincerà a voler bene al suo mentore, a credere in lui e a comprendere a quali altre cose dare importanza nella vita oltre che al calcio. Quando Christian manca ad un appuntamento per un contratto milionario con il team del Chelsea, che lo ha comprato, il professore va a cercarlo proprio dove egli stesso stava provando a condurlo durante il percorso di vita e di studi fatto insieme: nella scuola in cui sostenere l’esame di maturità.
Forse è quello il momento in cui comprendiamo che il professore è riuscito nel suo intento e il ragazzo ha capito che nella vita bisogna sapersi porre degli obiettivi, perché il denaro non è mai un punto d’arrivo, semmai un punto di partenza.
L’interpretazione eccellente dei due protagonisti impreziosisce il film, ma c’è qualcosa che in modo particolare emerge con prepotenza dalle varie scene, rendendo la pellicola ancor più intensa e profonda: il principio per cui, nel corso della vita, ciascuno di noi si possa trovare davanti a tante sfide, ma è quella con noi stessi la più importante, quella che non si può evitare di affrontare quando ci dobbiamo misurare con le nostre paure e con i nostri limiti, quando abbiamo bisogno di buttarci alle spalle i nostri trascorsi dolorosi e ripartire proprio da quelli.
Tanto Valerio quanto Christian avevano reagito nello stesso modo alla perdita, rispettivamente, di un figlio e della madre, lasciando, come del resto capita a tutti noi, che la rabbia si impadronisse di loro, senza riuscire a gestirla e ad evitare che li conducesse verso scelte sbagliate. Ma della rabbia non bisogna liberarsi, basta saperla riconoscere, decodificare, incanalare, proprio ciò che il professore cerca di fare con il suo allievo-campione.
Durante questo percorso, lui ritrova se stesso, riscoprendo dentro di sé il piacere di insegnare, al punto da affermare che è la prima volta che gli piace fare quel lavoro.
Un incontro casuale, dunque, che cambia entrambi e che li porta a giocare sul campo della vita la loro partita, la loro sfida con se stessi, per se stessi.
Ornella Durante