Per una bianca, parlare di coscienza black potrebbe essere uno sforzo improprio, un po’ come le commissioni antiabortiste costituite unicamente da maschi bianchi di mezza età. Però, le arti ci forniscono uno strumento impareggiabile di comprensione delle sensibilità, ed è proprio l’assenza di omologazione, nel talento, e nelle storie memorabili di molti artisti, a regalarci gli occhiali giusti per guardare ai mondi, restandone affascinati. I sentimenti interiori e civili della négresse normano stati della coscienza che possono appartenere a chiunque, perché siamo tutti il diverso di qualcuno.
Quella sul colore della pelle è la discriminazione più banale quanto assurda perpetrata dall’essere umano.
Le rivendicazioni della popolazione di colore, negli Stati Uniti, come anche in Sudafrica, hanno rappresentato il primo capitolo per altre battaglie di uguaglianza nei diritti.
E’ la storia del Quattordicesimo Emendamento della Costituzione Americana, che da farsi mero principio programmatico di una popolazione la cui eterogeneità i Costituenti avevano intuito, ma non gestito, diventa fondamento, sancendo dapprima la fine della schiavitù, e poi l’illegittimità della segregazione. Sappiamo bene che questo processo fu tutto fuorché indolore, e che il disgustoso mito della razza, seppur formalmente eliminato, è lontano dall’essere estirpato dalle coscienze di chi non ha gli strumenti per comprendere la varietà del mondo che ci circonda.
Se poi si mette anche la politica, tendenziosamente, a soffiare sul fuoco della diffidenza e dell’ignoranza, ci riportiamo a episodi pressoché quotidiani, in cui afroamericani disarmati, perlopiù giovani, vengono assassinati. Il movimento del #blacklivesmatter è solo l’ultima – speriamo in tutti i sensi – ondata con cui si tenta di contrastare un odio insensato, sproporzionato, ai danni della popolazione di colore.
Una recente docuserie Netflix, “Amend”, ha ricostruito questa storia con molta proprietà e ritmo, con personalità del calibro di Will Smith e Mahershala Ali.
Di recente, la scoperta di un giro di regalie e prebende varie ha travolto i Golden Globe. Pur trattandosi di Stati Uniti , dove i crimini di corruzione hanno una soglia di tolleranza più bassa di Paesi come l’Italia, ciò che ha fatto scattare la decisione da parte di NBC di sospendere la diretta televisiva dei Golden Globe 2022, nonché di Netflix e Amazon Prime di sospendere i rapporti con la Hollywood Foreign Press Association (HFPA, organizzatore del premio) è stato proprio l’assenza di componenti di pelle nera nelle commissioni, in un settore in cui una parte considerevole, e in sostenuta crescita, della produzione è di professionalità afroamericane.
La spinta decisiva a queste prese di posizione è stata, manco a dirlo, proprio #blacklivesmatter. Molti attori, tra cui Tom Cruise, Scarlett Johansson e Mark Ruffalo, stanno rifiutando, o restituendo i premi, fino a quando non ci sarà una riforma nelle composizioni delle commissioni.
Come spesso accade, è necessario fare più rumore per ottenere la giusta attenzione.
Si parla di personalità, si parla di rumore.
Ed è la personalità, più che la persona, nelle proprie altezze, nei propri eccessi, nel proprio stridere, che aiuta una bianca a definire, seppur in parte, il modo in cui la cultura nera rappresenta un ingrediente fondamentale del sentire contemporaneo.
Un’espressione sfavillante, a tratti eccessiva, atta a produrre il suono vitale della determinazione.
E infatti, urlava così tanto, Little Richard (al secolo Richard Wayne Penniman), che le sue urla sono diventati i primi vagiti del rock and roll. Una vita sempre sopra le righe, tra musica, stravizi, look fatti di trucco e lustrini, Penniman ha saputo innovare la musica che ha trovato, rappresentando un caposaldo per chi l’ha seguito. Tale innovazione non sarebbe stata possibile senza la trasgressione, che rendeva Penniman fluido, parlando con disinvoltura di poliamore e testi espliciti, anche nell’espressione dal vivo. Cosa sono i suoi “Tutti Frutti”, se non un esplicito richiamo a cibarsi di tanti amori diversi? Questa dote di Little Richard era ancora più peculiare, per certi aspetti controversa, se si tiene presente la sua vivida fede evangelista, e il suo fervore di attivista per il black power.
La fede attraversa anche la vicenda di Marvin Gaye, incarnandosi nella figura controversa di suo padre, Marvin Gay (senza “e”) senior, predicatore, omofobo, alcolizzato, integralista avventista. Tutti estremismi che Gaye ha contrastato, ricadendovi però con le stesse sue gambe. E così, le tossicodipendenze, i giochi di sesso estremo, il temperamento violento, si sono alternati a momenti di fondamentalismo familiare e religioso. Due uomini che sono l’uno lo specchio dell’altro, l’uno il lato oscuro dell’altro, a fasi alterne. Difficile che sullo stesso pianeta, allo stesso tempo, possano coesistere due uomini così uguali tra loro, ed è per questo che il figlio regala al padre una Calibro 38, con cui il padre finirà per ucciderlo. Uno dei due esseri umani muore, e non è il figlio, che quel giorno, come tante altre esistenze spezzate tragicamente, si guadagna il salvacondotto dell’immortalità.
La realtà del canto gospel è stata anche la palestra di Aretha Franklin, figlia di un pastore battista e di una mamma fuggita via quando lei aveva sei anni. Dopo sei anni, Franklin partorisce il primo figlio. E’ precoce e prolifica, anche nella discografia, sebbene il successo arrivi solo nel 1967, quando Franklin ha 25 anni e le scatole piene di cantare per il gusto di solfeggiare uno spartito o di caricare con la sua vis le parole di uno spiritual scritto da altri. A partire da “Respect”, presa da Otis Redding e diventata un manifesto universale, non c’è via della musica soul, R&B, finanche jazz e funk, che non si riconduca alla figura di Mrs. Franklin, non c’è tributo alla voce, non solo femminile, che non riporti a lei. Può più lei, un volto e un corpo che muovono le montagne, che sia vestita in diamanti e pellicce, oppure con il grembiule e le pianelle di scena, che decenni di saggistica sull’autodeterminazione.
C’è grande attesa per “Respect”, il biopic interpretato da Jennifer Hudson, che è stata già Effie White (alter ego di Florence Ballard delle Supremes di Diana Ross) in “Dreamgirls” del 2006. L’uscita del film è prevista per la fine di questa estate.
Anche Michael Jackson era ancora un bambino quando le luci della ribalta lo hanno assurto a popstar mondiale. Un talento fuori dal comune, un’infanzia rubata troppo presto, unito alla sufficienza con cui l’industria discografica trattava i più giovani tra i pittoreschi “Jackson Five”, hanno costituito l’alfabetizzazione sociale di Jackson. E così, mentre l’artista, col suo corpo, con la sua voce, con i suoi costumi destinati a fare la storia, infrangeva un record dopo l’altro, l’uomo sentiva tutta l’inferiorità dell’essere trattato da nero, anche con tutti i soldi del mondo. L’uomo ha voluto diventare per forza ciò che la società coccola di più: un ragazzino bianco. Debiti contratti per camere iperbariche, medicinali, interventi chirurgici. Una casa che è uno sterminato parco giochi. Raffiche di accuse per pedofilia. Un adulto precoce era diventato un eterno bambino, fragile, che muore a soli cinquant’anni, divorato dalle sue ossessioni.
Tutte queste storie trovano la loro chiave di lettura nelle conseguenze che mostrano l’altra faccia del razzismo: l’inadeguatezza.
La bonus track del viaggio di oggi è il film Green Book, tre premi Oscar, tra cui quello per il miglior film, nell’edizione 2019. Anche Mahershala Ali, già citato, ha vinto l’Oscar come attore non protagonista. Il film narra la storia vera di Don Shirley, pianista afroamericano. La storia arriva a un punto in cui Shirley non è abbastanza bianco per essere bianco, non abbastanza nero per essere nero, non abbastanza qualcosa, per essere se stesso (lo stesso film è stato ritenuto poco black dai puristi del genere).
E’ perdendosi che l’artista scopre che fingersi qualcosa, per assecondare chi ci guarda, non appaga né se stessi, né gli altri, ed è questa, la lezione per tutti noi.
Beatrice Zippo
Un bellissimo pezzo veramente bello. Con la speranza che lo leggano e che si mettano in testa una cosa che fa parte del nostro DNA, del nostro modo di sentire: bianco o nero non esistono in maniera distorta se non in una mente quanto meno “malata”. Al di là dei riferimenti del pezzo molto pregevole, ricordo il grande film di Spielberg “IL COLORE VIOLA”. Alla melodia, alla musica si aggiunge anche questo poetico film con una scena finale struggente.