Prima della caduta del regime talebano nel 2001, lo stadio Ghazi di Kabul ogni venerdì pomeriggio vedeva riempire gli spalti. Ma non c’erano cori da stadio, bandiere sventolanti e sorrisi. Il prato era incolto, rovinato e tante erano le zone in cui il verde era sparito per lasciare il posto alle chiazze di sangue che si asciugavano bruciando l’erba.
Prima del 2001 lo sport era quasi totalmente bandito in Afghanistan, e se agli uomini erano concessi solo il calcio e la boxe, per le donne era pura utopia anche solo pensare di poter uscire di casa non accompagnate da un parente stretto.
Lo stadio di Kabul di donne lapidate ne ha viste tante, fin troppe. Sono state loro a pagare il prezzo più alto in quella assurdità che è stato il governo dei talebani. Ma dopo la caduta del regime, seppur con passo lento ed incerto, la speranza ha cominciato a farsi largo.
Dopo che lo sport maschile ha timidamente ricominciato ad esistere grazie alla bonifica degli stadi e le donazioni di attrezzature sportive da parte di varie associazioni sportive occidentali, anche il calcio femminile comincia la sua segreta avanzata incarnandosi nel volto dell’allora quattordicenne Khalida Popal.
Ci vogliono anni prima che la sua passione sfoci nella creazione della prima squadra di calcio femminile afghana, ma quella stessa passione ha spinto migliaia di donne, di ragazze a venire allo scoperto e a manifestare la propria voglia di vivere e di vedere riconosciuti i diritti che ogni essere umano dovrebbe avere per diritto di nascita. Perché se per noi, nati nella parte giusta di mondo, lo sport non è quasi neanche più un privilegio, in una nazione come l’Afghanistan è vita.
Khalida è un personaggio scomodo e, anche se i talebani non governano più, la cultura maschilista e opprimente ancora radicata in Afghanistan è una seria minaccia per chi come lei rappresenta l’emancipazione e il potere femminile. Le ragazze del calcio vengono minacciate e abusate pur di fermarle. Khalida, che nel frattempo è diventata membro della Federcalcio, è costretta a fuggire in Danimarca ma la sua lotta per le donne afghane continua.
Ora, con il ritorno al potere dei talebani, è la stessa Popal che dalla Danimarca invita le sue donne a fuggire, a cancellare la loro storia, i profili Facebook e bruciare le loro divise sportive pur di provare ad avere salva la vita. I loro vicini sanno che sono calciatrici e il rischio che qualcuno le denunci è molto alto.
Nel frattempo, ad Herat è salita la preoccupazione per le calciatrici della squadra Campione di Afghanistan. Appena l’avanzata talebana ha cominciato a farsi incalzante, alcune di loro sono fuggite in Iran, ma di altre sei si erano perse le tracce facendo pensare al peggio. Fortunatamente l’Italia è corsa in loro aiuto. Attraverso l’esercito, il Ministero della Difesa e dell’Interno la nostra nazione ha lavorato senza sosta per trovarle e portarle in salvo fino all’aeroporto di Kabul senza che fossero riconosciute e fermate. Ora sono arrivate a Firenze dove potranno tornare a giocare a calcio.
Ma non tutte sono state così fortunate. Lo sport, che fino a poco tempo fa aveva permesso di sognare, di vivere ed emanciparsi, ora è diventato un marchio di infamia sulla pelle delle giovani donne afghane che vedono sgretolarsi ogni possibilità di vita.
Sono tante le sportive che ora temono per sé stesse e i loro cari e che in molti casi, non potendo fuggire, attendono chiuse in casa di essere trovate e uccise, come l’atleta paralimpica di taekwondo che ha vissuto nella paura finché il governo australiano non è riuscito a darle protezione. La missione di salvataggio si è conclusa con l’arrivo dell’atleta in Australia e poi a Tokyo dove ha potuto disputare la sua olimpiade.
Ma le donne afghane non si fermano. Scendono in piazza, rischiano il tutto per tutto, ci mettono la faccia lasciandola scoperta e non occultata dal burqa.
E il tam tam mediatico che si è attivato in tutto il mondo amplifica la loro voce perché non sono più disposte a vedere il loro sangue macchiare l’erba dei campi di calcio.
Maira D’Aprile