Quando ho visto il trailer del film diretto da Mario Martone “Qui rido io“, mi sono ovviamente molto incuriosito perché la faccia di Toni Servillo dominava le immagini della presentazione, e se da un lato ero spinto ad andare a vederlo, da un altro temevo di trovarmi di fronte al solito stereotipo napoletano, simile al cliché dell’attore della commedia dell’arte, bravo certo ma improvvisatore e – perché no – alla fine solo disordinato.
Le mie, per la verità scarse, remore, presto cadute, non mi hanno impedito il coinvolgimento totale nell’emozione che l’opera di Martone determina.
La rappresentazione dei personaggi più dello sviluppo della sceneggiatura domina tutto il percorso di 130 minuti circa che, a me, non sono sembrati più di trenta.
Il fascino dei costumi e della Napoli che normalmente non vediamo dei palazzi di Chaia, dove c’è Palazzo Scarpetta, incanta per la precisione e l’attenzione ai particolari, tanto quanto le splendide musiche, scelte con saggezza e coinvolgenti.
Dimenticatevi Pulcinella: qui anche Felice Sciosciammocca trova una luce diversa, più studiata.
Questo film ci restituisce la verità, forse, della vita che c’è prima e intorno a questo personaggio, al suo interprete più famoso Eduardo Scarpetta, centro della storia, e a un buon numero di quelli che vivevano con lui o, meglio, facevano parte della sua tribù. I riferimenti alla storia e alle storie sono continui soprattutto per Eduardo De Filippo, figlio di un padre amato, almeno sembra, ma ingombrante e perennemente chiamato zio pur nella piena coscienza della paternità mai veramente concessa.
La Tribù vive nella complessità dei rapporti, senza vergogna ma con una complicità tutta al femminile in cui i ruoli sono netti. La socia e moglie con la quale c’è un contratto che riguarda i figli, l’amante giovane e sofferente, accettata ma, in ossequio alle convenzioni, tenuta formalmente all’esterno della famiglia ufficiale, e la giovane procace cognata, più diletto che amore, autorelegatasi, anche durante le feste, in cucina.
Tutto questo circo di mogli, amanti, figli e attori, ruota intorno ad un ingombrante, dispotico e debordante Eduardo Scarpetta / Toni Servillo, che non riesce, alla fine, a distinguere tra vita e palcoscenico.
La realtà esiste perché deve essere rappresentata, sia nella vita che sulla scena, da parte di colui che ha ucciso Pulcinella e la Commedia dell’Arte (mai omicidio fu più benemerito) perché è là, sul palcoscenico, che siamo liberi. Certo, la comicità rappresentata non è alta, la “Kultura”, fotografata senza indulgenza e con una punta di disprezzo, non entra in questa rappresentazione, ma Eduardo, nel monologo finale, dice chiaramente ai suoi detrattori, dotti, sapienti e, soprattutto, saccenti: “Tranquilli, una risata vi seppellirà”.
Una sola piccola nota finale e, per quel poco che vale, un piccolo omaggio a Peppino De Filippo.
Tenuto lontano da sua madre e dai suoi fratelli, cresciuti nell’agio e nella cultura mentre l’altro viveva in campagna, con pochi soldi e nessun insegnamento. A lui, come il padre, il regista non regala che uno spicchio di informazione nel finale riservando il trono ad Eduardo, grandissimo scrittore e creatore d’arte, ma che – perdonatemi – il fratello Capone (indimenticabile con Totò) non lo sapeva fare.
Marco Preverin