Dopo aver visto “Madres paralelas” di Pedro Almodovar mi sono chiesto qual era la chiave di lettura di questo film.
Cosa mi voleva dire Almodovar quando mi parlava, attraverso le immagini sullo schermo, con le sue donne, le sue madri, le loro maternità, i loro dubbi, drammi e gioie?
Quanto il regista trasferisce di se stesso nella voglia di maternità della sua protagonista? Probabilmente tanto.
Il transfert femminile di Almodovar è, come tutti sappiamo, Penelope Cruz. È in lei che lui rappresenta la sua voglia di procreazione, non solo per la necessità di avere un legame con i figli, ma anche per il grande desiderio di generare vita.
Sull’attrice/feticcio è costruita questa storia di due madri – invero tre – che la vita accidentalmente spinge a vivere un’esperienza drammatica, congiunte ma, in realtà, mai veramente unite. Lo spunto, che non vi racconto, non è del tutto originale ma offre sempre ghiotte occasioni di racconto.
Il problema di questo film, al di là delle apparenti buone intenzioni, è il risultato.
Francamente, mi sentirei di salvarne gli ultimi dieci minuti, scarsi. I dialoghi sono da telenovela sudamericana e neanche di alto livello; le riprese, con tanti primissimi piani di Penelope Cruz, sembrano artefatte; la faccia ha un contorno estremamente preciso quasi fosse sovrapposta alla pellicola (anche se digitale) e palesemente non credibile.
La storia ha dei passaggi che, se non fossimo in un film di Almodovar, avrebbe probabilmente suscitato l’ilarità o quantomeno la perplessità del pubblico.
Il tema critico è la maternità fine a se stessa, si potrebbe quasi dire senza figli. La bambina di cui parla, meglio, con cui si armeggia, dopo anni di figliolanza cambia madre senza problemi e senza conseguenze come un pacco di Amazon: il figlio come proprietà e non come essere vivente autonomo anche se piccolo. Insomma, è chiaro che questa parte del film non mi è piaciuta affatto.
E’ alla fine del film, quasi negli ultimi minuti, che il registro cambia e affronta in maniera non didascalica il tema delle fosse comuni della guerra civile spagnola. La “limpieza” voluta dai franchisti, con l’eliminazione fisica di tutti gli oppositori e le fosse comuni, rappresenta una pagina di storia civile e umana ancora non esaurita. Il modo semplice con cui il regista disegna la fossa comune è di grande impatto emotivo.
Insomma, nell’insieme un film di mestiere e tecnica, ma francamente di poca sostanza.
La recitazione è in massima parte, anche qui, di mestiere, addirittura sopra le righe; in alcuni momenti sembra che la Cruz non abbia tanta voglia di stare in scena e anche Israel Elejalde appare abbastanza legnoso e poco comunicativo.
Dov’è l’emozione nel vedere una figlia e poterla toccare? Nella scena in cui lui vede per la prima volta la figlia sembra quasi che tutto sia molto razionale e il cuore sia una accessorio di passaggio.
Il broncetto di Milena Smit domina, ma non convince.
Funzionale, anche se forse troppo televisiva, Aitana Sanchez-Gijon, la terza mamma, alla quale è stato dato un personaggio, almeno a lei, non troppo disegnato con la matita leggera.
Immancabile la sempre brava Rossy de Palma, la bella dama di Picasso.
Marco Preverin