“Se adesso muoio, giura che mi seppellirai sulla spiaggia, e ogni sera verrai e ti farai una canna pensando a me”.
“Meh, ogni sera è troppo: facciamo due volte alla settimana, martedì e giovedì”.
Mimmuccio e Michele sono due delinquenti da poco, di quelli che passano la vita schiavi di qualcuno, incapaci perfino di sognare il proprio riscatto. Manovali della malavita al soldo di Mazinga, che grazie a loro si è arricchito, stipendiati a 1200 euro al mese, senza mai scatti di carriera o di ambizione, si trovano davanti alla prospettiva di una ricchezza inaudita. Purtroppo anche i loro desideri hanno la cifra della mediocrità, come se non riuscissero neanche ad alzare la testa per guardare in alto. La loro è un’esistenza che si arrabatta, che gratta la crosta, che stenta ogni giorno.
Mimmucio in verità ha seguito il consiglio di suo padre (“devi pensare al tuo futuro, e devi farlo da adesso”) e ogni settimana, per 25 anni (“quante settimane ci sono in 25 anni?”), ha sottratto 10 grammi di cocaina dal chilo che Mazinga gli consegnava per smistarla ai piccoli spacciatori, sostituendola con polvere di marmo.
Dieci grammi per ogni chilo … Chi vuoi che se ne accorga?
Così ha accumulato una incredibile fortuna e, alla vigilia dei suoi cinquant’anni, decide di cambiare vita, di partire per le Galapagos, senza più tornare. Ma deve farlo con qualcuno, perché non è facile affrontare la felicità da soli, e chiede a Michele di andare con lui. Si conoscono da una vita, sono amici (amici?) e si vogliono bene in un modo sgangherato e non sempre fedele, ma nella pochezza della sua esistenza Mimmuccio non ha altri a cui rivolgersi.
Sembra che il sogno li possa salvare, ma certe vite non riescono a gestire il sogno: hanno sempre camminato a testa bassa, con rabbia, strappando a morsi la giornata, ostentando la spavalderia e la risata grassa dell’uomo che è furbo, che frega il prossimo.
Vamos, lo spettacolo della Aygor Production andato in scena in prima nazionale al Teatro Kismet di Bari per l’interpretazione di Dino Abbrescia e Gianluca Gobbi e la regia di Susy Laude, nasce dalla penna di Andrej Longo, autore per Sellerio, narratore anche di periferie e drammi di piccole vite, e la solidità del testo sostiene bene questo dialogo a due, pur lasciando spazio all’improvvisazione di Gobbi e Abbrescia, che in scena, dopo un inizio forse un po’ lento, acquistano presto un formidabile ritmo e ci incatenano fino alla fine, in un crescendo di comicità e disperazione, verso un finale drammatico, l’unico possibile, perché non c’è altra strada, altra soluzione.
Si ride tanto in questo spettacolo, si ride alle battute anche grevi, perché greve è l’esistenza dei due, apparentemente sbruffona ma in realtà squallida nella realtà dei giorni, delle storie, dei rapporti familiari.
Le maschere di Mimmuccio e Michele sono grottesche e crude, e descrivono una realtà che li incatena ad una vita che vorrebbero cambiare. Alla fine però sarà la realtà ad essere più forte e incatenante, quando, complice una beffarda allergia, Mazinga si accorgerà che qualcuno lo sta fregando e correrà ai ripari. Messi uno contro l’altro, incapaci anche della spietatezza che forse salverebbe uno dei due, Mimmuccio e Michele perderanno la testa, tuffandola nella cocaina che li stravolgerà fino all’epilogo disperato.
Secca e asciutta, la regia di Susy Laude guida i due attori in una scena scarna ed essenziale, i cui spazi sono delimitati solo dal gioco delle luci. Tutto è affidato ai loro gesti, ai dialoghi, al ritmo serrato che non rallenta mai, alla capacità di trascinare lo spettatore nella storia. Sia Gobbi (milanese catapultato al sud con un espediente narrativo che ne giustifichi l’accento nordico) che il nostro Abbrescia riescono in tutto questo, e ci regalano un’ora divertente ma anche amara e surreale.
Quella di Mimmuccio e Michele è l’epopea di due veri perdenti.
Due delinquenti senza speranza, oscuri manovali senza scatti di ribellione, senza ambizione, incapaci di felicità, straordinariamente autentici.
Imma Covino