“‘Cause your crystal ball ain’t so crystal clear
So while you sit back and wonder why
I got this fucking thorn in my side
Oh my God, it’s a mirage
I’m tellin’ y’all, it’s a sabotage.”
(“Perché la tua sfera di cristallo non è così cristallina,
così mentre tu ti siedi e ti chiedi perché,
io ho questa cazzo di spina nel fianco.
Oh mio Dio, è un miraggio,
io ve lo dico, è un sabotaggio.”)
(Beastie Boys, “Sabotage”)
Uno spettacolo del 2007 può essere tremendamente contemporaneo, in un clima in cui il paternalismo istituzionale ha generato solo caos, da cui, invece che stelle danzanti, sono nate crisi economiche, emergenza climatica, guerre e altre divisioni tra poveri; la cosmogonia anarchica, cui l’opera di RezzaMastrella è genuinamente improntata, sembra così un ideale utopico, degno di essere perseguito.
Non risulta difficile credere, perciò, alla profezia che ha azzardato Antonio Rezza durante il dibattito seguìto (sia come sequenza temporale, che come folta partecipazione del pubblico): questo spettacolo sarà attuale, forse addirittura un classico, fra trent’anni, perché “l’uomo non cambia mai”.
Parlo di “Bahamuth”, spettacolo andato in scena al Teatro Kismet di Bari, nell’ambito della rassegna “Tutto Cambia” a cura di Teresa Ludovico. La produzione, oltreché ai Leoni d’Oro RezzaMastrella (al solito, Antonio Rezza alla drammaturgia e Flavia Mastrella agli habitat), è affidata a TSI “La Fabbrica dell’attore” Teatro Vascello di Roma, con l’assistenza alla creazione di Massimo Camilli, le luci e la tecnica di Daria Grispino, il macchinismo di Andrea Zanarini e la sartoria di Silvana Ciofoli.
Gli antichi cantori delle scritture babilonesi, abramitiche e islamiche hanno avuto pochi dubbi, nel dipingere un essere che sfrutta le piccole ombre dell’ignoranza in senso stretto, ingigantendosi, diventando un paradosso schroedingeriano ante litteram, facendosi portatore di una massa che nessuno sa quanto è grande, a custodia di un buio e di un’ignoranza ancora più grande e sconosciuta (“un mistero che non c’è”, avrebbe scritto Enrico Ruggeri a proposito della “Contessa” dei Decibel).
No, non è il Leviatano, ruggente, feroce, spavaldo e vorace nell’esibizione del proprio dispotismo. Il Bahamuth è subdolo, potrebbe non esistere, potrebbe assumere mille forme e generarne mille altre. Si dice sia un pesce, ma potrebbe essere un elefante, qualsiasi sia il suo aspetto, la sua essenza non cambia, e non è meno terribile.
Quello cui lo spettacolo si ispira liberamente è il Bahamuth del “Manuale di zoologia fantastica” di J.L. Borges e M. Guerrero.
E Antonio Rezza, col suo corpo, sottoposto alla legge del palco, che amplifica la fatica di una drammaturgia di per sé fisicamente provante, smaschera il Bahamuth che possiamo vedere ogni giorno.
Inizia lo spettacolo nella “scatola”, uno scheletro metallico che costituisce la struttura portante dell’habitat di Flavia Mastrella, proprio nella posizione yogica del pesce, immobilizzato, ma già con la valvola della pressione pronta a saltare per mutare in tutto il bestiario possibile: un nanetto idiocrate, che dietro un’apparenza grottesca, tesa ad accattivare il pubblico, agisce nel buio, dove fa il cacchio che gli pare; una strana coppia di mercanti di tessuti, i Porfirio, pronti a reincarnarsi in tutta la loro banalità nelle prepotenze di classe; la noia narcotica dei personaggi di un hotel a Kitzbühel, che come in un Overlook Hotel kubrickiano inscenano un massacro, stavolta verbale; un pachiderma rosa in mezzo alla stanza, prosopopea di un’assurdità enorme soprattutto negli occhi di chi non vuole vederla, né disinnescarla, prima che partorisca altre assurdità; un nativo americano senza possibilità di difendersi attraverso il dialogo, cui hanno tolto tutto, tranne la potenza del canto; tanti, tanti altri.
Oltreché nell’habitat, il genio drammaturgico risiede nelle stoffe, di colori fluo, con squarci che aprono i mondi di Bahamuth, svelandone teste, smorfie, parolacce. Sullo sfondo, vittime sacrificali del Bahamuth, due colletti blu, che tanto blu non sono: “lo scuro”, interpretato da Neilson Bispo Dos Santos, e “quello piccolo”, interpretato da Ivan Bellavista, a una prova atletica non da meno rispetto a Rezza, con una plasticità del corpo che ricorda Mario e Luigi contro Donkey Kong, un servilismo meccanico che non conosce variazioni sul tema.
Il pubblico è divertito, anche dagli inframmezzi riservati ai soliti col cellulare a protesi. Divertire però è solo un aspetto incidentale, di uno spettacolo fatto per amore dell’arte e della libertà, di un pomeriggio in cui è impossibile uscire dal teatro essendo gli stessi di quando si è entrati.
“No arts; no letters; no society; and which is worst of all, continual fear and danger of violent death; and the life of man solitary, poor, nasty, brutish, and short.”
(“Niente arti, niente lettere, niente società, e ciò che è peggio, paura continua e pericolo di morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, povera, dannosa, abbrutita, e breve.“)
(Thomas Hobbes, “Leviathan”)
Beatrice Zippo