Vorrei raccontarvi una storia, la storia di un uomo che non sentiva più niente al di fuori del suo dolore e si vergognava perché era il dolore, in fondo, di qualcuno che aveva tutto.
“La Gioia” è uno spettacolo che in realtà non si può “raccontare”, perché l’emozione non riesce a rimanere contenuta e descritta dalle parole.
“La Gioia” è un mosaico, le cui tessere sono frammenti di buio e di luce, di atroce dolore e soave bellezza. Un mosaico che la vita compone e smonta, che noi siamo chiamati a ricostruire incessantemente e necessariamente.
“La Gioia“, andato in scena al Teatro Piccinni a chiusura dell’annuale Stagione di Prosa del Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese, è il viaggio al quale ci invitano Pippo Delbono e la sua Compagnia/famiglia, un gruppo che da sempre apre alle differenze, alle diversità, a coloro che sono fuggiti dalle guerre, dai conflitti, dalla strada, dai margini, portando in scena la propria unicità e un’idea visionaria del teatro.
È un incontro col pubblico che viene interpellato, scosso; un incontro sempre leggermente diverso perché diversa ogni sera è la gente, il sentimento degli attori, la malinconia del ricordo e la gratitudine del dono.
Tutto comincia con l’evocazione di Bobò, compagno di una vita di Pippo, inseparabile sin dal primo incontro nel 1995 nel manicomio di Aversa, creatura sordomuta rimasta internata per 47 anni. Pippo racconta che non se ne conosceva neanche l’età, e per questo ogni tanto l’intera Compagnia inventava per lui una festa di compleanno.
La panchina che accoglieva Pippo e Bobò, nel corso dello spettacolo, si fa tomba traboccante di fiori, colorato addobbo, speranza di eternità possibile.
Così il dolore si mescola al sorriso della memoria amorevole, si fa racconto intimo.
Bobò è fortissima presenza-assenza.
La gioia, o la sua intuizione, è una incessante ricerca che parte da sentimenti opposti ed estremi, come l’angoscia, la follia, la paura del diverso, il tormento. Si cammina verso la gioia attraverso la magia del circo, della danza, della liberazione data da uno sciamano che svela il senso della vita. Si attraversa il dolore, la gabbia delle proprie fragilità, il buio della depressione.
È un andare urgente, inevitabile; si va avanti conservando lo stupore del bambino che voleva fare il trapezista, disposti a ricominciare sempre, disposti a non fermarsi, infaticabili come Pepe Robledo, che si muove sulla scena senza dire una parola, riversando sacchi di stracci (immagine dei corpi smarriti nel “Mare Nostro”, secondo le parole della preghiera laica di Erri De Luca) e disponendo con cura centinaia di barchette di carta. E spargendo infine a piene mani foglie secche e, finalmente, fiori. Quegli stessi fiori che adornano la panchina – tomba di Bobò e che si uniscono a quei tralci che improvvisamente piovono dal soffitto, fra i quali Pippo finalmente danza felice.
In questo fare, in questo non fermarsi, forse, è il segreto della ricerca della gioia.
Pepe fa e disfa, e non si ferma. Camminare, assaporare la vita che viviamo, qualunque essa sia, è già un anticipo di gioia, ed è giusto e bello che sia così, perché la gioia alla fine non si possiede per sempre, non è bottino acquisito. Dalla gioia di un istante si riparte per una nuova ricerca, per un nuovo tormento, per un nuovo viaggio.
Delbono ci racconta proprio l’instabile poesia dell’andare, il provocatorio squilibrio delle nostre esistenze fragili, il necessario attraversamento del dolore.
Per tutte le emozioni, per la generosità di tutto l’ensemble, per la sincerità del racconto e per questo autentico desiderio di condivisione di un pezzo di vita, non possiamo che ringraziare lui e tutti i membri della sua famiglia (riduttivo chiamarla compagnia). Ci spiace solo che in certi momenti il volume della musica abbia coperto quello della voce, rendendo inintelligibili le sue parole mai banali, mai scontate.
Pippo stupisce, fa sognare, si dà senza filtri.
Il pubblico lo accoglie e l’applauso finale è un autentico e sincero abbraccio.
Imma Covino
Foto di Silvio Donà