“Pio XIII: “Chi è lo scrittore più importante degli ultimi 20 anni?… Attenta però, non il più bravo. La bravura è degli arroganti… L’autore che ha destato una curiosità così morbosa da diventare il più importante…?”
Sofia Dubois: “Non saprei. Philip Roth?”
Pio XIII: “No. Salinger. Il più importante regista cinematografico?”
Sofia Dubois: “Spielberg?”
Pio XIII: “No. Kubrick. L’artista contemporaneo?”
Sofia Dubois: “Jeff Koons… Marina Abramovich?”
Pio XIII: “Banksy. Il gruppo di musica elettronica?”
Sofia Dubois: “Ohh, non so assolutamente niente di musica elettronica…”
Pio XIII: “E poi c’è chi dice che Harvard è una buona università… Comunque, i Daft Punk.”
Card. Voiello: “E invece la più grande cantante italiana?”
Sofia Dubois: “Mina“.
Pio XII: “Brava. Adesso lei sa quale è l’invisibile filo rosso che unisce tutte queste figure che sono le più importanti nei loro rispettivi campi? Nessuno di loro si fa vedere. Nessuno di loro si lascia fotografare“.”
(“The Young Pope”, Paolo Sorrentino)
Un bluff. Una truffa. Un genio. Sprecato vederlo nei musei. Servo del sistema. Tutto e il contrario di tutto. Se ne dicono di ogni, su Banksy, tante quante sono le manifestazioni della sua arte in giro per il mondo. La sua identità ufficiale è sconosciuta, sebbene la teoria maggiormente accreditata la faccia coincidere con quella di Robert Del Naja dei Massive Attack.
I suoi esclamativi, per tutti coloro che si interrogano più per noia che per interesse, arrivano al Teatro Margherita di Bari dal 9 aprile al 12 giugno. “Realismo Capitalista”, a cura di Stefano Antonelli e Gianluca Marziani, è promossa dalla Città di Bari, prodotta e organizzata da MetaMorfosi Eventi con il supporto territoriale di Cime, con il sostegno di Regione Puglia, Teatro Pubblico Pugliese – Consorzio Regionale per le Arti e la Cultura, Pugliapromozione, nell’ambito del POC PUGLIA 2014/2020 – Azione 6.8 Interventi per il riposizionamento competitivo delle destinazioni turistiche, e Atos Italia, e la partecipazione della Fondazione Enzo Hruby.
Innanzitutto, merita una considerazione particolare lo spazio, quello del Teatro Margherita. Luogo deputato, per forza e per vocazione quasi dharmica, alla fotografia, al multimediale e all’arte contemporanea, e non ai delicati materiali delle epoche precedenti, il Margherita è finalmente una sede museale propriamente detta, grazie a un allestimento indovinato, a tratti emozionante, per chi, come me, vede crescere una città giorno per giorno, sotto i propri occhi.
Le opere raccolte dalla pregevole curatela sono principalmente serigrafie originali dei più importanti stilemi dell’artista, ma non mancano installazioni e altri oggetti, incentrati, all’interno dell’infinito elenco di opere attribuite a Banksy, sullo sbeffeggiamento del consumismo come atto religioso verso il dio del capitalismo.
Da “Di-Faced Tenner” banconota da 10 sterline con le facce di Lady Diana e Charles Darwin, facente parte di quelle sventagliate sul pubblico di Glastonsbury nel 2004, a una delle fantasuppellettili di “Gross Domestic Products”, negozio di fantasia aperto nel 2019, ai lavori iconici come “Flower Thrower (Love is in the air)” a “Girl with balloon (There is always hope)”, quest’ultima come una fenice in fondo al vaso di Pandora di quanto l’umanità faccia schifo, vi è una selezione che spinge a chiedersi “se un mondo senza religioni è possibile, è possibile anche un mondo dove il denaro non sia un venerabile fine?”.
Anche i contributi video, dal trailer del film “Exit through the gift shop” alle varie epifanie di Banksy in tutto il mondo, dalla Palestina a Birmingham, mostra quanto siamo scemi, quando esultiamo perché un Banksy è comparso nottetempo dietro casa nostra: Banksy ci sta additando, tutti, come fossimo topi, piccoli ingranaggi di un meccanismo che festeggia la propria stupidità. E quale stupidità è più grande e autolesionista della guerra?
La dissacrazione finale di Banksy è infatti verso tutti i grandi temi dell’umanità, una specie che si crede moderna, che crede che il presente che sta vivendo sia il più fico di tutti, quando invece, proprio in ragione di questa stolida presunzione, va solo per coazione a ripetere: produce, consuma, uccide prima di crepare a sua volta, attivando un vecchio andante dei CCCP, in un continuo loop che rende anche la vita umana un Fast Moving Consumer Good, mercificando, prostituendo, anche i sentimenti e la dignità. La sua istanza, emanata dal punk e dalle macerie tossiche del secolo breve, sembrerebbe spingerci a crogiolarci nell’immutabile, perché, come scrive Mark Fisher proprio in “Realismo Capitalista”, “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. E invece no. Se è vero che non ci sono più utopie che possiamo immaginare, allora dobbiamo smetterla di mettere in pratica sempre le stesse, ignorandone altre.
Perciò, finiamola di fare un’intifada di pietre e insulti, lanciamo dei fiori, pratichiamo la gentilezza e vediamo l’effetto che fa.
“Perché, insomma, lo scopo dell’ordigno “Fine di mondo” è perduto se si tiene segreto. Perché non l’avete
detto al mondo, eh?”
(“Il Dottor Stranamore. Ovvero, come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”, Stanley Kubrick)
Beatrice Zippo
Foto di Beatrice Zippo