Edoardo Scarpetta sosteneva che il testo era immutabile (“attenetevi al testo senza improvvisazioni”, diceva) e Vincenzo Salemme sembra aver fatto tesoro di questa raccomandazione, rappresentando con questo suo “Napoletano? E famme ‘na pizza!” due diverse (ma veramente diverse, poi?) commedie o, meglio, loro estratti che al cinema non hanno avuto la stessa fortuna stilistica e comica legata al teatro.
Un ristretto numero di attori, sei per essere precisi, che in realtà interpretano sempre la stessa parte, alternandosi e cambiando semplicemente il vestito per inscenare situazioni e dialoghi in certi momenti veramente esilaranti.
L‘immutabile scenografia, sfondo costante della rappresentazione della commedia (e della vita, forse).
I monologhi che intervallano le scene e costituiscono il filo rosso che lega l’intero lavoro teatrale.
Lo schema è semplice: un padre, una madre, una figlia e una terza persona, con intermezzi di altri due personaggi, di cui uno sempre identico a se stesso, e che costituisce di per sé una maschera compiuta.
La tradizione e la professionalità sono le chiavi di lettura di due ore intense, senza pause, in cui gli attori riempiono la scena conducendo lo spettatore in piccole stanze in cui due, tre o al massimo quattro persone vivono situazioni lessicalmente surreali, nei giochi di parole che l’uso sapiente della lingua italiana, che non trascende nella facile battuta dialettale, consente.
Salemme è oggettivamente un turbine di presenza, la prova che, quando c’è il talento, non è la maschera a fare l’attore, ma l’attore a fare la maschera. Non è l’età e forse nemmeno la tenuta muscolare, pure importante, a consentire ad un attore di darsi in maniera così completa e ininterrotta, bensì l’amore per il pubblico – corrisposto e ricambiato elevato a potenza – e la perfetta rappresentazione dell’afasia di un’umanità vera, che tutti ci coinvolge, creano nel teatro, pur con tutti i limiti del più esteso luogo di rappresentazione di Bari, un’aria di attesa e di complicità che rende l’atmosfera ideale per la visione della pièce.
Vincenzo Borrino, Sergio D’Auria, Teresa Del Vecchio, Antonio Guerriero e Fernanda Pinto accompagnano il capocomico nella sua cavalcata senza mai sovrapporsi e rappresentando, nei diversi ruoli, spalle intelligenti e discrete che, nello schema classico, sono più supporto che confronto: Antonio Guerriero sommesso e fintamente ingenuo, Teresa del Vecchio professionale e sicura, Fernanda Pinto e Sergio D’Auria due giovani che di sicuro cresceranno, mentre una menzione particolare va a Vincenzo Borrino ed alla sua piccola ma divertentissima porzione di spettacolo, il cameriere/cameriera sempre lui, il cui ondeggiamento è a prova di artrosi cervicale.
Divertente la trovata del selfie finale.
Alla fine, due ore in cui la napoletanità è solo uno spunto per mettere in scena il teatro comico nella sua accezione più compiuta: la vera anima dello spettacolo.
Marco Preverin