Martedì 28 luglio ho faticato a restare seduta all’Arena Apulia Film Commission, terza serata della sesta stagione del Loop Festival, centrata sul contributo femminile all’evoluzione del groove; per cui consiglio, per una prossima occasione, di contemplare l’ipotesi di far alzare il pubblico per una immersione totale, anima e corpo, nel Groove.
Ma cosa è il groove? Il termine lo visualizzo come una sequenza armonica di suoni che viene ripetuta in maniera costante per più successioni di tempo all’interno della melodia. Nasce negli anni ’60, in America, e non può non far venire in mente la black music, in tutte le sue varianti: funky, soul, funk, rhythm and blues, fino a raggiungere il jazz, quello che svolta verso l’acid e la fusion. Ma si può ridurre il groove a questa definizione tecnicistica? Per me è un sound coinvolgente, che appassiona, che ti trascina fuori dalla tua realtà, azzera le preoccupazioni. Sei tu ed il ritmo. Il groove è una dimensione parallela in cui ti rifugi. Ma la divina Amy Winehouse forse la pensava diversamente.
“Ho fatto un disco di cui sono molto orgogliosa. E questo è quanto. È solo che è nella mia natura prendermi cura degli altri e voglio stare bene trascorrendo il tempo con mio marito. Non mi fa neppure strano dirlo adesso. Blake ed io non abbiamo potuto trascorrere del tempo insieme per un lungo periodo. Ed io stavo con un altro, e lui stava con un’altra, e persino sei mesi fa ci incontravamo e ricordo di avergli detto così tante volte, “Desidero solo prendermi cura di te.” Non voglio essere un’ingrata. So di avere talento, ma non sono stata messa qui per cantare. Sono stata messa qui per essere una moglie ed una madre e per prendermi cura della mia famiglia. Amo quel che faccio, ma non è né la fine né l’inizio di tutto.” (Amy Whitehouse in una intervista di Jenny Eliscu sul Rolling Stone del 23 luglio 2015)
La serata inizia con il videoclip di Amy, girato interamente per le strade di Hollywood, del brano Tears dry on their own, quarto singolo pubblicato nel suo secondo splendido album Back to Black del 2006. Scopro con mio stupore che contiene un sample del brano Ain’t no mountain high enough scritto dal duo Ashford & Simpson, cantato in origine da Marvin Gaye in coppia con Tammi Terrell. Cosa è un sample? Il sampling consiste nel registrare solo una porzione di un brano e inserirlo in una nuova, differente traccia: il producer prende la base, o una strofa, o un riff di chitarra, un fill di batteria da un disco e costruisce qualcosa di nuovo, inserendolo in una propria produzione, manipolandolo e modificandolo. Già il brano di Marvin e Tammi è coinvolgente, Amy ne crea un pezzo magnifico. Guardando il videoclip, e poi ascoltando il testo, scelto sapientemente dal direttore artistico del Festival Michele Casella, racconta una artista diversa, tanta sofferenza in un corpo minuto: la testimonianza di un dolore che non guarisce. Amy Winehouse non aveva ancora compiuto 28 anni quando raggiunge la cerchia di artisti colpiti dalla cosiddetta maledizione del 27, morendo di overdose di droga. Una donna che forse cercava semplicemente di amare ed essere amata.
Anche il brano “Honey” di Erykah Badu, che accompagna il secondo videoclip della serata, sfrutta un sample della canzone I’m in love del 1978 di Nancy Wilson. L’artista, che si definisce “una ragazza analogica in un mondo digitale”, si è divertita a creare un vero e proprio patchwork sonoro composto da brandelli di hip hop, neo soul, funk, jazz, elettronica, psichedelia e progressive nel disco “New Amerykah Part One (4th World War)”, chiuso con la ghost track “Honey” che, contro ogni regola del mercato, viene scelto anche come singolo di lancio, accompagnandolo con una vera e propria dichiarazione d’amore ai vinili. Il video, pubblicato il 28 gennaio 2008, è diretto dalla stessa Badu e Chris Robinson, è ambientato in un piccolo negozio di dischi e segue un cliente che guarda tra gli album, le cui copertine sono immagini in movimento.
“Volevamo un video che parlasse dell’eclettismo di Badu. Quelle copertine degli album rappresentano tutte le influenze che lei incarna.” (Chris Robinson)
E mentre fatico a concentrarmi sul video, impedendo al mio corpo di lasciarsi andare al ritmo, nelle copertine vintage che prendono vita riconosco Baku in Chaka Khan (1975) di Rufus, in Diana Ross con Blu (2006), Let it be (1970) dei Beatles, Physical (1981) di Olivia Newton-John, Nightclubbing (1981) di Grace Jones, Head to the Sky (1973) di Earth, Wind & Fire e non solo. Capisco perché il video del brano abbia ricevuto numerose nomination, perfino ai Grammy, ed ha vinto un “moonman” agli MTV Video Music Awards del 2008. Ma non è solo il video che colpisce, nei dieci brani di “New Amerykah Part One (4th World War)” e nell’album “New Amerykah Part Two (Return of the Ankh)”, pubblicato solo due anni più tardi, la cantante racconta il lato oscuro dell’America, fatto dalle violenze della polizia, la criminalità, la droga, la profetizzata “quarta guerra mondiale” del titolo, impegnandosi dal punto di vista politico e sociale, nell’eterna lotta per i diritti civili degli afroamericani.
Quando siamo solo al terzo videoclip, ecco che arriva la sorpresa, un simil cartoons intitolato “Retreat” della potente cantante soul con una voce grintosa Sharon Jones, energia indomabile.
Sono andata a curiosare il repertorio di questa artista, una storia pazzesca ma non a lieto fine. Sharon è morta 18 novembre 2016 dopo una lunga battaglia. Aveva sessant’anni, la maggior parte dei quali trascorsi a cantare in un coro gospel o come turnista in studio. Ma per mantenersi ha lavorato anche come guardia carceraria in un istituto di pena del Bronx, e probabilmente questo ha fatto di lei quella donna cosi determinata, una vera combattente.. Il brano Retreat fa parte del suo ultimo lavoro con i The Dap-Kings e nonostante sia stato scritto prima della diagnosi di cancro al pancreas, è un inno alla vita, alla forza di affrontarla e alla capacità di rialzarsi dopo una sconfitta.
Il 18 novembre 2016 è morta una artista dell’anima.
Continua il viaggio di questa serata in cui le donne celebrano la vita attraverso il ritmo del groove tramite i racconti di 12 artiste, icone e non solo, come ci raccontano Angela Bianchi Saponari e lo stesso Casella. Il ritmo è trascinante, ma i testi riportano alla realtà e le immagini, anche se simboliche, non ti permettono di far finta di non vedere.
“Lavorare per eliminare le disuguaglianze mi rende, prima di tutto, un’umanista. Non mi piace avere etichette. Non voglio definirmi femminista perché non voglio che sia la mia unica priorità. Ci sono molte battaglie da combattere, come il razzismo o il bullismo. Sono stufa di essere catalogata». (Beyoncé)
E se si parla di groove non si può dimenticare Beyoncé che entra alla grande nella compilation con il videoclip di “Formation”, il singolo del suo sesto album, portavoce di un messaggio politico forte e deciso, una vera e propria celebrazione d’identità. Il filmato comincia con Beyoncé seduta sul tetto di una Ford Crown in una strada completamente allagata, chiaro riferimento all’Uragano Katrina, ma non finisce qui, contiene riferimenti alla cultura creola della Louisiana per alcuni abiti indossati. Continua con chiari riferimenti a tema razziale e dell’orgoglio dei neri d’America, come l’apparizione di un muro con le parole ‘smettete di spararci’.
Con il quarto brano tutto cambia, “Cosmic Slop” mi appare dissonante dai ritmi precedenti. Anche l’artista Moor Mother canta la storia oscura dell’America, con dolore e rabbia non senza un ironico umorismo. Nel video ciò che mi stupisce è la sua presenza, magnetica.
Ma il meglio della serata, probabilmente, è la scoperta di Jaimie Branch con il suo Theme 001, come dal video preso dalla registrazione integrale dello show tenuto al Moods di Zurigo, in Svizzera, il 23 gennaio del 2020. Con la tromba, che è indubbiamente il suo strumento, ha creato uno stile unico in cui confluiscono sperimentazione avanguardistica, punk, free-jazz, elettronica, indie-rock. Anche lei sta cercando di sdoganare il jazz presso un pubblico “altro”, non dimenticando di darne una impronta politico sociale enfatizzando la propria identità culturale, nera o ispanica che sia.
Si continua in Sud Africa, precisamente a Città del Capo con “Losing you” di Solange. Una bella idea sui contrasti, a partire dal testo che richiama un addio mentre il groove, basato su un lick funky di chitarra con un ritmo frizzante di batteria, e il video sembrano suggerire il contrario. Come la povertà assoluta dei sobborghi di Città del Capo, mentre la squadra delle comparse della sorella minore di Beyoncé ostentano vestiti da grandi firme come Gucci. Il finale non è fiabesco, dopo un addio, Solange sa che può sempre contare sul sostegno degli amici (molto alla moda).
“Ehi, è il mio album. Chi può raccontare la mia storia meglio di me?” (Lauryn Hill)
Estremamente coinvolgente e affascinante è l’ottavo brano proposto, “Doo Wop”, una canzone della cantautrice americana Lauryn Hill dei The Fugees pubblicato nel suo primo lavoro da solista nel 1998. La graziosa Lauryn, sposata con Rohan Marley (figlio di Bob, da cui ha avuto due figli), appare più come una pin-up, gentile ed educata che una “cattiva ragazza” dell’hip hop, e nel suo lavoro da solista rivela di possedere un’integrità e una sensibilità come cantautrice alla Joni Mitchell. Musicalmente si ha l’impressione che si allontani dall’hip hop dei Fugees, riversando in esso tanti e svariati stili avendo una calda voce e potente, creando un personalissimo groove.
“Showing off your ass ‘cause your thinking it’s a trend. Girlfriend, let me break it down for you again. You know I only say it ‘cause I’m truly genuine. Don’t be a hard rock, when you really are a gem. Baby girl, respect is just the minimum. Nigga’s creepin’ and you still defending him. Now Lauryn is only human. Don’t think I haven’t been through the same predicament”
Il testo è un ammonimento non solo agli uomini afroamericani, più interessati alle cose materiali, ma anche alle donne afroamericane troppo impegnate nel trasformarsi in rocce dure quando in realtà sono gemme preziose. Lauryn consiglia loro di non permettere che “quella cosa” distrugga le loro vite. Il brano riesce a collezionare ben due Grammy per la migliore canzone e la migliore performance vocale r’n’b femminile.
Si prosegue con il gruppo di tre ragazze nere, le Big Joanie con il brano “Fall Asleep”, a me sinora sconosciute. Scopro che il gruppo londinese ha le sue radici al non-manifesto del DIY – Do It Yourself, che in parole povere significa “facciamo come cazzo ci pare“, dando a loro una diversa connotazione nella mia scaletta personale. Stephanie Phillips e Chardine Taylor Stone si conoscono a un raduno femminista nel 2013, complice una sacca con la scritta “Raincoats” portata dalla Phillips, dal comune amore per lo stesso gruppo musicale post-punk britannico nasce una grande amicizia. Dopo poco si unisce la bassista Estella Adeyeri. Nel singolo che ha preceduto l’album Sistahs, “Fall Asleep”, le tre amiche artiste, in scene dal sapore vagamente vintage anni 70, celebrano l’amicizia come una sorellanza. Come richiama il titolo “Sistahs” ovvero sorelle, inteso come atto di solidarietà fra donne all’interno della complessa comunità nera inglese, ma anche come delicato omaggio alla famiglia di origine, rievocata in copertina dove sono ritratte, in una foto d’epoca, la madre e la zia della Phillips vocalist e chitarrista del trio. Le artiste del decimo e undicesimo brano le accomuna il loro naturale scivolare della voce su e giù per il pentagramma.
Nel videoclip “Hot Knife” della straordinaria Fiona Apple, segnata indelebilmente da un terribile trauma adolescenziale di cui non ha mai fatto mistero, lei canta, come solo lei sa fare, accompagnata dal ritmo del suono di tamburo. Libera più che mai, come suggeriscono le parole del testo, un inno alla libido.
L’undicesimo brano è “Carolyn’s Fingers” degli scozzesi Cocteau Twins, una delle poche band capaci di creare una formula originale. Credo che la loro particolarità non sia solo la loro musicalità fatta da un pop etereo, visionario e onirico, ma soprattutto dalla vocalist Elizabeth Davidson Frazer, una ragazza esile e aggraziata.
“Da ragazzina ero la punk più dolce che si potesse incontare – racconterà – Ho sempre avuto le braccia piene di tatuaggi di Siouxsie e dei Sex Pistols, ma mi sono sempre vergognata di mostrarli in pubblico. Probabilmente, la gente pensava che stavo sempre con le maniche lunghe perché ero una eroinomane“. (Elizabeth Davidson Frazer)
“Carolyn’s Fingers“, non solo è un tuffo nostalgico nel mio passato degli anni 80, ma è una straordinaria sequenza, assolutamente libera e leggera, di vocalizzi eterei della Fraser in un flusso sonoro, impregnato di dissonanze ed echi, che vola fino ad altezze irraggiungibili. Lo stesso brano contribuirà ad accrescere la fama del gruppo anche grazie alla sua inclusione in un celebre spot della Honda Civic.
L’ultimo brano, il più difficile, è Mountain Book di un gruppo di 4 ragazze giapponesi, le OOIOO, di cui non esiste il video, ma al Loop Festival ne hanno creato uno opportuno. Ascoltandolo, ho la piacevole sensazione della follia più completa, un gorgo mostruoso di suoni e colori con voci mesmerizzanti, un crescendo progressivo con impennate di chitarra e di piatti, come se volessero sperimentare, cambiando di continuo.
Molti spettatori si sono dileguati nel mentre, come spaventati.
Certo è roba difficile, ma davvero ci si spaventa ancora per così poco?
Maurizia Limongelli