Ormai è un’abitudine che tutti noi abbiamo.
Comprare on line e farsi consegnare a casa quello che, soprattutto prima del lock down, andavamo a cercare in negozio e spesso in più negozi. In realtà, anche se adesso lo consideriamo una specie di rito collettivo, la vera rivoluzione l’abbiamo avuta con gli ipermercati, che tutto contengono, ma che non consegnavano a domicilio.
L’evoluzione della grande distribuzione e la comodità di ricevere tutto già pronto hanno spinto a cercare nuove modalità di distribuzione della merce e la consegna nella dimora è esplosa, soprattutto nelle grandi città.
Just eat, Glovo e tanti altri stipulano contratti capestro con persone che, per necessità, magari anche solo temporanee, sono oggetto di analisi da parte di un algoritmo, il quale, apparentemente senza intervento umano, stabilisce priorità, tempi, percorsi,
salvezza o punizione.
Non producono né vendono nulla. Consegnano e basta.
Utilizzano, per ora, persone per fare i “lavoretti” (sembra una frase da scuola elementare) che non richiedono titolo di studio o particolari competenze. Solo muscoli e conoscenza delle strade della città.
La ricerca di un lavoro e le difficoltà di adeguarsi alle esigenze di una società sempre più digitale spingono spesso i più economicamente fragili a piegarsi alla dittatura della matematica applicata ad un’invenzione umana che oggi tutto costringe come una cintura stretta ed è utilizzata quasi fosse l’unico strumento utile o necessario per interpretare o vivere la realtà in maniera armonica o efficiente.
Così succede che chi introduce un nuovo algoritmo per “migliorare” l’efficienza aziendale sia egli stesso vittima della sua apparente rivoluzione. In una Milano da bere per alcuni e da incubo per altri, il personaggio principale del terzo film da regista di Pif “E noi come stronzi rimanemmo a guardare“, già manager di successo ma ultraquarantenne (è questa la sua condanna), è costretto a ripiegare sul “lavoretto”. Non deve affrontare colloqui o incontrare responsabili del personale vestiti di chiaro in un’azienda in cui tutti sono vestiti di scuro e che funge da schermo per nascondere le più amare crudeltà del sistema di cui, piaccia o meno, siamo tutti parte silenziosa e di fatto complice (“non è che mi manchi la voglia o manchi il coraggio, ma sono parte ormai dell’ingranaggio” cantava il Maestro Giorgio Gaber).
Il “lavoretto” sarà, come è per la maggior parte di chi lo fa, più fonte di perdite che di guadagno tanto da costringere il nostro, per mancanza di soldi, a dormire vestito con lo zaino termico sempre allacciato perché il nuovo zaino sarebbe a suo carico e costa 150 euro (più meno il decuplo di quello che guadagna con una consegna). Se vi sembra uno scherzo, vi prego di recuperare i documenti con cui sui siti di Just eat e Glovo invitano a lavorare per loro (notare che quelli di Just eat scrivono “farai esercizio fisico e guadagnerai soldi” senza neanche provare vergogna o sentirsi ridicoli!!).
Lo spunto è moderno e per molti versi concretamente attuale in una società sempre più terziarizzata, in cui lo sviluppo tecnologico della produzione si è scontrata con la povertà degli schiavi dell’est del mondo che non rendono conveniente produrre in Europa, ma spostare le produzioni in paesi in cui persone più povere rispetto a noi lavorano per noi a prezzi bassi e condizioni di lavoro inaccettabili.
Lo sviluppo del tema del film, però, non rispetta le premesse, e gli eventi si accumulano in maniera non del tutto conseguenziale, con spunti interessanti che tardano a consolidarsi in maniera compiuta, finendo per essere più bozzetti che storia.
Colpisce lo spazio dato al creatore di fuuber, il giovane contraltare delle persone che sfrutta, rappresentando la realtà come se fosse il sol dell’avvenire e non l’incubo del dominio algoritmico; in realtà, non è tanto la sua funzione nella storia quanto l’apparente necessità di farlo esprimere in inglese senza sottotitoli che nasconde, al pubblico poco internazionale come me, il senso letterale della comunicazione, peraltro molto ben espressa dal corpo dell’interprete (Eamon Farrel).
Insomma Pif, regista e cosceneggiatore insieme a Michele Astori, questa volta non mi sembra riuscito a trasferire la bella intuizione alla base del film in un prodotto finale accurato, lasciando in bocca un senso di incompiuto, quasi come una cena in cui si passa da un piatto all’altro senza un vero filo conduttore, pur potendo gustare alcuni piatti veramente buoni (la compagnia aerea low low cost è niente male e nemmeno troppo inventata).
I due protagonisti, Fabio De Luigi/Arturo Giammarresi e Ilenia Pastorelli/Stella o meglio Flora, riescono a dare il senso di spaesamento che coglie chi viene, si potrebbe dire, espunto dalla sua realtà e spinto ai margini del suo mondo.
Splendido, come sempre, Maurizio Marchetti/Jean-Pierre (lo stesso nome che aveva ne “La mafia uccide solo d’estate” la prima opera registica di Pif e, probabilmente, ad oggi, il suo capolavoro), pensionato con un’attività di consolante virtuale.
Ovviamente, essendo a Milano, non poteva mancare il cameo del grande Maurizio Nichetti.
Insomma, un buon film che però aveva bisogno di almeno altri venti minuti o più per poter sviluppare tutti i percorsi narrativi che contiene in embrione e, finalmente, concludere come inizia: “e noi come stronzi rimanemmo a guardare”.
Marco Preverin