Quando guardo un film francese, come questo, o più in generale europeo, colgo immediatamente la profonda differenza fra le cinematografie del continente della ninfa e quello degli scopritori.
Un’opera transalpina, di solito, è fatta di attori e di personaggi, i quali vivono una storia pensata da un regista e da sceneggiatori che non risiedono nel mondo dei videogiochi, ma guardano la realtà con l’occhio dell’artista intento a rappresentarla mediante gli strumenti che gli sono propri.
“Un’ombra sulla verità”, in originale “L’homme de la cave” (vale a dire, “l’uomo in cantina” – ma
quando la finiranno di ‘tradurre’ i titoli, modificandoli e rovinandoli?), è un film che ci porta direttamente e senza fronzoli al cuore del problema. La storia è incentrata non sul negazionismo, ma sui negazionisti e la loro capacità subdola di insinuare dubbi e falsità anche riguardo la più evidente e straziante delle tragedie della storia umana.
I coniugi Simon (architetto) e Hélène Sandberg (tecnico di laboratorio), benestanti, mettono in vendita una delle cantine del loro appartamento a Parigi e Monsieur Fonzic si offre di acquistarla, pagando subito, prima ancora del rogito notarile, il prezzo convenuto dopo una brevissima trattativa. La coppia non ha mai conosciuto prima l’individuo in questione che è un uomo comune e particolarmente gentile e dimesso, di quelli che ispirano fiducia a prima vista. E’ insegnante di storia e racconta a Simon di aver perso la sua anziana madre da pochissimo, e che quindi ha fretta di acquistare un locale ove depositare gli oggetti che occupano il bilocale dove viveva la donna. Di fronte alla disarmante semplicità dell’uomo, l’architetto, dopo la firma della promessa di vendita, lascia le chiavi della cantina a Fonzic.
La realtà mostrerà prestissimo il suo volto aspro e falso. L’acquirente, invece di utilizzare la cantina per quello che è, un tugurio in un posto nero e domesticamente spaventoso, la userà per abitarla. Simon scopre subito che Fonzic è un convintissimo negazionista, attivo sui forum neofascisti e neonazisti, razzista e antisemita, e non vorrebbe più vendergli nulla. Purtroppo per lui, per la gioia degli avvocati del film (e anche di quelli in sala), la manifestazione del consenso, insieme al pagamento del prezzo e alla consegna della cosa, concludono il contratto e non è certo facile tornare indietro. Da qui si dipana la vicenda che costringerà tutti i protagonisti, salvo il negazionista, a fare i conti con se stessi e, per quanto attiene Simon, con la propria storia familiare.
Lo sguardo del regista sulla realtà (di certo non solo francese), o – meglio, si potrebbe dire – sullo spazio sociale e “zoologico”, non solo sui personaggi che circondano i protagonisti, è privo di manierismo e dosato con il giusto grado di cinismo. Philippe Le Guay ha una regia attenta non solo ai personaggi, ma soprattutto alle persone, che riprende con primi piani mai troppo ravvicinati, badando a rappresentare l’azione e la scena, dando prevalenza, di volta in volta, all’una o all’altra in funzione dello sviluppo del racconto, intervallando il tutto con figure che, pur restando di contorno, lo definiscono in maniera netta, senza sbavature. Riesce ad inserire, senza esagerare, la suspence in poche ma indicative scene.
Ottimi gli interpreti principali.
Jérémie Rénier nel ruolo di Simòn Sanderbeg la cui voglia di normalità si scontra con la forza degli eventi. Bérénice Béjo, nel ruolo di Hélèn, e Victoria Eber, nel ruolo di Justine, rispettivamente moglie e figlia di Simòn, interpretano due figure essenziali nel racconto, pur essendo tagliate, in quanto personaggi, in maniera non sufficientemente completa. Come tutti i film di persone, gli attori sono tanti e, mediamente, bravi. Su tutti spicca l’oggetto/soggetto e il filo rosso di tutto il film, ovvero il personaggio del sig. Fonzic, interpretato da un Françoise Cluset (l’interprete, qui quasi irriconoscibile, di “Quasi amici”) addirittura perfetto.
Potete vederlo nelle sale, per fortuna.
Marco Preverin