Spesso il racconto di una vita è stato utilizzato per narrare un’epoca, un periodo storico o
l’evoluzione della società durante il racconto stesso.
Ne “Il Colibrì” romanzo di Sandro Veronesi tradotto ora in immagini da Francesca Archibugi, c’è un racconto che attraversa la vita del protagonista, senza la pretesa di raccontare la storia, ma con l’intento preciso di raccontare una storia umana con le sue vicende più o meno drammatiche.
Sullo schermo, il protagonista principale è il cardine di ogni vicenda, perché i comprimari, nel filo della narrazione e della rappresentazione filmica, rappresentano l’occasione per meglio definire il carattere e l’avvicinamento dello stesso alla sua vita. Un film che solo apparentemente è corale
ma, pur essendoci numerosi personaggi, ruota intorno alla figura di Marco Carrera, un uomo gentile e tanto attento a non ferire gli altri da non accorgersi mai della falsità e dell’ipocrisia di chi gli vive accanto, anche quando gli si presenta davanti in maniera perfino violenta.
Gli eventi narrati nella pellicola sono, volutamente, quelli più drammatici o comunque dolorosi della vita di Marco, senza mai però che la regista indulga alla lacrima facile o al comodo melodramma.
Un continuo andirivieni tra il passato e il presente, come un flusso di pensieri e di ricordi e, come tali, senza ordine o disordine. Semplicemente come vengono; come anche a noi vengono.
Eppure, tutto è legato da un insieme malinconico, quasi che non fossero lo scrittore o la regista a raccontare la trama della vita, ma lo stesso Marco, attore e autore di se stesso.
Non è una vita speciale, non ci sono premi o punti culminanti, come spesso accade nei racconti standardizzati. Tutto si svolge come può accadere a ciascuno di noi, con la passionaccia del poker e l’amore per la figlia, salvo l’approccio sempre gentile ma mai banale del nostro Marco.
Gli attori sono tanti e citarli tutti è oggettivamente impossibile.
Nell’ambito delle figure prevalenti del film spicca, ovviamente, quella di Pierfrancesco Favino, nella parte di Marco Carrera adulto, che ci conduce per i meandri della storia in sordina, adeguandosi al personaggio senza che la sua personalità emerga sommergendolo. Bèrènice Bejo (Laura Lattes adulta), Laura Morante e Sergio Albelli, rispettivamente la mamma ed il papà di Marco, interpretano i loro ruoli con la bravura legata a talenti maturi. Una bella Benedetta Porcaroli (Adele Carrera), un’affettuosa Rausy Giangarè (la nipote di Marco) ed un episodico, e piuttosto silenzioso, Alessandro Tedeschi (Giacomo Carrera) completano la famiglia Carrera con recitazioni semplici e ben amalgamate. Massimo Ceccherini gigioneggia in un ruolo pirandelliano rifacendo se stesso. Non brillano né Kasia Smutniak, nel ruolo complicato e non riuscito della moglie Marina Molitor, né tantomeno Nanni Moretti, indubbiamente uno dei più grandi registi italiani ma fuori fuoco nel ruolo dello psicanalista Carradori.
La regia di Francesca Archibugi non lascia scampo alla noia e permette di guardare il film senza interruzioni e, ringraziando il cielo, senza popcorn. Nella colonna sonora va per forza segnalato l’inedito dell’immenso Sergio Endrigo “Caro Amore Lontanissimo“, cantato da Marco Mengoni. Veramente bello.
Il film è abbastanza complesso, senza essere cervellotico, uno di quei film che vanno sedimentati e ripensati per apprezzarne appieno lo spessore. Magari, immediatamente lascia qualche perplessità, ma col tempo si comprende quanto si sia radicato in noi e, credo, non si dimentica.
Nei cinema.
Marco Preverin