Quante volte nella nostra vita siamo andati al cinema a vedere un film che avrebbe raccontato, magari con particolari dettagliati, la possibilità di rapinare tanti, tantissimi soldi, in luoghi inaccessibili, super blindati e, in apparenza impenetrabili. Gli americani sono gli specialisti del genere: disegnano sistemi di sicurezza complicatissimi che, con altrettanta difficoltà e grandissima professionalità, ladri abilissimi riescono a violare. Intelligenza, preparazione e con tanto tanto lavoro consentono a un gruppo, sempre eterogeneo, di persone di raggiungere obiettivi insperati. In altre parole, il successo.
Nei film americani.
La nostra tradizione è appena diversa. Più legata al vissuto quotidiano. Non tanto per rappresentare neorealisticamente, in maniera drammatica, la realtà da cui nasce il bisogno o il desiderio di rubare, quanto perché apre la porta ad ironia e comicità generose.
“Rapiniamo il duce” si inserisce, in maniera anomala, nel filone dei Soliti Ignoti piuttosto che in quello di Ocean’s Eleven.
Non è l’acutezza del piano, né l’incessante lavoro di preparazione maniacale delle operazioni da eseguire, ma la taratura dei personaggi e la loro stramba e artigianale genialità a costituire l’ossatura del film.
Il ladro non troppo fortunato, abile ma inconcludente, il corridore cocainomane, i due anarchici dal cuore tenero che, per loro natura, fanno bombe. La donna del capo, torbida nella vita ma dal cuore d’oro e innamorata del povero ladro. Una colomba costretta dagli eventi a volare tra i rifiuti. Il tutto ambientato in un mondo sull’orlo della notte, com’era la Milano della primavera del 1945 dal punto di vista dei fascisti (permettetemi: notte per loro e alba e primavera per l’Italia) . Criminali beceri e crudelissimi.
Il tempo, lo spazio ed i personaggi lasciano al regista Renato De Maria il margine per divertirsi con contorni non sempre congrui, ma decisamente piacevoli. L’uso della musica degli anni sessanta del 900 o una fotografia più moderna, che non ricalca pedissequamente l’atmosfera cupa e drammatica di quei giorni, sono novità introdotte per rendere la storia più simile al racconto di fantasia che non alla verità – inesistente – dei fatti. De Maria disegna il film in maniera fumettistica con dialoghi rapidi, anche se spesso ripetitivi, ed un montaggio non rettilineo, con i salti tipici dei quadri dei fumetti.
Pietro Castellitto (Isola) in coppia con Matilda De Angelis (Gianna Ascari detta Yvonne) formano una coppia abbastanza affiatata, che potrebbe dare anche di più, regalando una maggiore brillantezza ai due interpreti principali della storia. La composita banda – Tommaso Ragno (un tenebroso Marcello Davoli), Alberto Astorri (l’irriducibile anarchico Molotov), Maccio Capatonda (l’iperattivo e cocainomane Giovanni Fabbri), Covo Rebecca Edogamhe (tanto improbabile quanto simpatica ladra professionista Hessa), Luigi Fedele (un giovane romantico Amedeo) – si muovono come la banda stessa, un po’ cialtroni, un po’ geniali. Centrato e senza ambiguità nella sua cattiveria cosmica Filippo Timi (il cattivissimo federale Borsalino), mai sotto le righe. Cinica e spregiudicata al punto giusto Isabella Ferrari (Nora Cavalieri) nel ruolo dell’attrice del regime, cosciente della fine e decisa a salvarsi ad ogni costo. Da segnalare un divertentissimo Maurizio Lombardi (Camillo Serbelloni, cognome acconcio alla canzonatura) nella parte del nobile cineasta snob.
Coinvolgente la scelta dei temi musicali del film: una splendida canzone di Massimo Ranieri, oppure Gianna Nannini cantata da Matilde De Angelis, o ancora la stessa Matilde che canta un grande successo sempre degli anni 60.
Nell’insieme un film carino, che può allietare la domenica pomeriggio di un piovoso giorno d’autunno.
Lo trovate solo su Netflix.
Marco Preverin