I Manetti Bros ci provano nuovamente e, a dispetto delle critiche, ma forti del successo di pubblico, partono dal primo e continuano a riprodurre la vita del sempreverde ladro ed assassino Diabolik.
Questa volta fanno le cose più in grande e il nostro assomiglia ancora di più al James Bond degli anni 60 cercando di essere sempre più tecnologico e impossibile come lo 007 delle origini. Come in tutti i fumetti non c’è una sequenzialità fra gli episodi, ma ciascuno ha una vita propria; quindi anche l’ultimo episodio non vive di luce riflessa, ma sviluppa nuove sfaccettature della sempre viva saga di Diabolik.
La struttura del film pare ricalcata su quelle del citato James, sia la sigla iniziale, con un piccolo prequel prima del vero inizio della storia, sia per le tappe dello svolgimento del compito dal tema: come potrà mai Ginko fermare Diabolik? Non può; ovviamente non può. Ha solo una possibilità. La sempre splendida Eva Kant deve tradire il suo amato e consegnarlo alla polizia di Clerville.
La storia non è particolarmente importante, è conosciuta perché riprende il fascicolo n.16 della infinita serie di fumetti, lo sviluppo della vicenda rispecchia le modalità fumettistiche ma, come il primo, non è Diabolik il vero protagonista della vicenda, essendone lo spunto e la finalità.
Nel primo episodio era Eva Kant la stella assoluta del film, in questo Ginko primeggia nelle scene ed è il punto di riferimento dell’intera vicenda. Nel nostro immaginario si tratta di una figura decisamente secondaria rispetto al diavolo vestito di nero, ma questa volta, sia pure nella riproduzione della psicologia elementare e decisamente infantile dell’originale, ne risulta un piccolo approfondimento. Un leggero scavo della personalità dell’ispettore senza, per carità, voler utilizzare troppo il cervello o chiedere all0 spettatore di farlo.
Anche rispetto alla prima puntata, i dialoghi sono essenziali. Ad essere sinceri si ha l’impressione che i registi, se avessero potuto, avrebbero preferito la classica nuvoletta alla necessità di costringere gli attori a parlare tra loro. Se così fosse, si potrebbe spiegare l’asetticità delle relazioni tra gli stessi. In altre parole, ci sono momenti in cui le star che ci intrattengono sembrano parlare con i registi, con noi, con l’immensa anima dell’universo, ma non fra loro. Esattamente come nei fumetti con la fissità tipica del disegno o, non lo si può escludere, del fotoromanzo. D’altronde, gli anni 60 sono stati l’epoca d’oro dell’immagine fissa.
Così anche la luce e le immagini, inizialmente molto nitide e moderne, si colorano in maniera quasi anomala, con un fondo di gialli/grigio che le rende vagamente nostalgiche. Per l’appunto, anni 60.
I quattro moschettieri del film recitano come se dovessero essere osservati non dagli spettatori, ma dai vignettisti che li debbono fissare sulla pagina bianca. L’immobilità e l’inespressività è tratto comune fra tutte le recitazioni e quindi non sembra scarsa capacità recitativa, ma una precisa scelta dei registi, ovvero cercare la sovrapposizione totale con il fumetto.
Gianni Giannotti (Diabolik) dal punto di vista fisico rappresenta senz’altro un passo avanti nella similitudine con il personaggio rispetto al suo predecessore Luca Marinelli, ma sembra comunque meno ispirato. Valerio Mastrandrea, pur nella ingenua disperazione di Ginko, riesce quantomeno a dare un senso al suo personaggio. Nella sfida, ipotetica, tra Miriam Leone (Eva Kant) e Monica Bellucci (Altea), quest’ultima ne esce, suo malgrado, sconfitta. Gli autori le hanno imposto una parlata al limite del cabarettistico, mentre la sempre intrigate Leone sfodera il suo fascino sexy da cattiva ragazza.
Tutti i caratteristi, a cominciare da Pierluigi Bellocchio (Sergente Palmer) per finire alla simpatica Linda Cariddi (Agente Elena Vanel), forse la meglio riuscita, passando per Alessio Lapice (Agente Roller), si comportano e recitano adeguandosi alla generale inespressività delle facce.
Le musiche sono la parte che meglio distingue questa seconda puntata. La sigla, con gli effetti visivi e l’ottima interpretazione di Diodato sono senz’altro memorabili, ma anche i pezzi che accompagnano le scene non costituiscono una mera sottolineatura dell’avvenimento ma sono parte dell’azione.
Un esperimento meglio riuscito del primo numero, anche se non privo di difetti, che consente di passare un po’ di tempo in sala divertendosi. Soprattutto se non vi aspettate niente e vi va di vedere un fumetto in forma di lungometraggio, non un film.
Nei cinema.
Marco Preverin