“Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello nella versione di Gabriele Lavia diventa perfetta personificazione di una antica ed attualissima umanità tormentata sino allo strazio

Pupi siamo! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, Santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. A quattr’occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato. E così, ognuno!” (da “Il berretto a sonagli” – Atto primo)

Il carattere di Ciampa è pazzesco: questa è la sua nota fondamentale. Gesti, andatura, modi di parlare: pazzeschi; cosicché dovrà nascere il sospetto e la paura che, a un dato momento, egli possa uccidere.” (Luigi Pirandello)

Non tutti sanno che la versione in italiano che conosciamo de “Il berretto a sonagli”, la sublime opera teatrale che Luigi Pirandello partorì ispirandosi alle sue due novelle “La verità” e “Certi obblighi”, ha un predecessore. Nell’agosto del 1916 Pirandello scrive una prima versione della commedia completamente in lingua siciliana con il titolo “A birritta cu’ i ciancianeddi” per la Compagnia del capocomico Angelo Musco, il quale in realtà viveva in modo conflittuale il matrimonio artistico con il Maestro che chiamava in modo dispregiativo “il professore”; i continui dissapori tra i due ebbero l’effetto di far rappresentare, quasi un anno dopo, dall’attore una versione molto ridotta dell’opera, non più incentrata sul personaggio di Beatrice, come Pirandello avrebbe voluto, bensì su Ciampa, non a caso interpretato dallo stesso Musco, cui non parve vero di riprendersi la scena integralmente. Leggenda vuole che l’autore non sia più riuscito a ritrovare l’originale manoscritto quando, stanco degli abusi di Musco sulla sua creatura, si decise a rimettere mano alla commedia riscrivendola in italiano, cosicché la nuova stesura, poi rappresentata per la prima volta nel 1923, finì per assomigliare in modo quasi speculare all’edizione ridotta, con la gravissima perdita della quasi totalità della coloritura siciliana. In questo modo è giunta a noi la figura del protagonista maschile, il modesto Ciampa, scrivano a servizio del Cavaliere Florica, uomo cupo, serio, tenebroso, spesso oscuro nelle sue – apparentemente insensate – elucubrazioni, personaggio che, negli anni, ha goduto di innumerevoli epiche interpretazioni, tra cui merita un posto di particolare rilievo quella di Eduardo De Filippo, che ne trasse una splendida messa in scena, immortalata in un’edizione televisiva del 1981 in cui Eduardo gareggiava in bravura con il figlio Luca che ricopriva il ruolo di Fifì, ma originariamente risalente al periodo di grande amicizia fra i due commediografi che portò prima a rappresentare ‘Il berretto’ e ‘Liolà’ in versione napoletana ed infine a comporre a quattro mani “L’abito nuovo”.

In quell’Olimpo ha fatto oggi il suo ingresso il Maestro Gabriele Lavia, il quale, per realizzare il ‘suo’ “Berretto a sonagli”, ha affrontato una encomiabile azione di recupero della versione originale, rimettendo al centro della macchina teatrale la figura di Beatrice (una sublime Federica Di Martino), moglie del ricco e potente Cavaliere, la quale, scoperto, grazie ai servigi della confidente ‘La Saracena’ (una convincente Matilde Piana), il tradimento del proprio coniuge con Sarina (Beatrice Ceccherini), la giovane moglie dell’impiegato Ciampa (lo stesso Lavia in una superba interpretazione), decide di non sottostare alle ferree leggi societarie e di denunciare – letteralmente – il marito fedifrago al commissario Spanò (uno scoppiettante Mario Pietramala), facendo esplodere uno scandalo assolutamente inaccettabile per la piccola comunità siciliana; pur avendo – forse – colto, grazie ad uno stratagemma, in flagrante i due amanti, Beatrice vedrà la sua voglia di verità e di cambiamento fortemente contrastata dalla anziana ed intransigente madre (Giovanna Guida), dal fratello Fifì (un istrionico Francesco Bonomo cui spetta il compito di tenere le fila dell’intera vicenda) e dalla affezionata serva nutrice Fana (una magnifica Maribella Piana), che sembrano averla convinta a tornare sui propri passi, accettando il ruolo che la società le imporrebbe, allorquando irrompe Ciampa, ormai per tutto il paese un buffone (da qui il titolo della commedia che richiama il copricapo dei giullari di corte), che propone due soluzioni per riappropriarsi – agli occhi degli altri – del suo onore: o commette una strage, assassinando sua moglie ed il Cavaliere, o la signora Beatrice dovrà professarsi pazza, ritirandosi in manicomio per qualche mese, soluzione quest’ultima su cui, sotto il pressante auspicio di tutti i presenti, cadrà la decisione della giovane donna tradita.

L’inconfondibile altissima cifra stilistica di Lavia è tutta presente in questa produzione Effimera SRL, in coproduzione con Diana Or.i.s., inserita nel cartellone della Stagione teatrale 2022.2023 ‘Altri mondi’ del Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese, con quattro gremite ed applauditissime repliche al Teatro Piccinni. La scenografia di Alessandro Camera, sovrastata da un pupo dormiente (o ferito o morto) posizionato in alto grazie ad una scala che ancora appare in palcoscenico, è attorniata da enormi teloni chiari su cui viene proiettato un gioco di ombre e di luci, probabile richiamo all’arte del cinema (invero ricordata anche nella foto di locandina), il suggestivo mondo dell’illusione – unitamente al teatro stesso – per antonomasia, mentre al centro del palco troneggia il salotto di casa Florica, che ci appare come l’interno di un appartamento scampato al passaggio di un tornado o di una battaglia. I fantocci con sembianze umane, da cui poi sorgeranno i personaggi stessi, che affollano il palco, tutti ricoperti dei bei costumi ideati dagli allievi del terzo anno dell’“Accademia Costume & Moda” (Matilde Annis, Carlotta Bufalini, Flavia Garbini, Ludovica Ottaviani, Valentina Poli, Nora Sala, Stefano Ritrovato) coordinati da Andrea Viotti, realizzano perfettamente la società messa all’indice da Pirandello, restituendole l’originaria cupezza, ben sottolineata anche dalle luci di Giuseppe Filipponio e dalle musiche di Antonio Di Pofi.

Nella regia ed anche – se non soprattutto – nell’interpretazione di Lavia, Ciampa perde gran parte della sua connotazione di maschera fortemente grottesca, assurgendo ad una delle più perfette personificazioni di una umanità tormentata sino allo strazio, antica eppur attualissima, irridente della nostra stessa società; nella tragedia di questo uomo ridicolo, sempre all’affannosa ed affannata ricerca di un significato in una realtà che si rivela irreale, irrisolta e illusoria, pronto ad accettare il tradimento e la pena di spartire l’amore della propria moglie pur di non perderla e non – come afferma Beatrice – in quanto condizionato dal potere del Cavaliere, ritroviamo la profondità e le tematiche care ai protagonisti pirandelliani, ma anche il più moderno ed il più umano degli eroi. Grazie anche al ponderato utilizzo della infinita bellezza che scaturisce dalla musicalità espressionista del dialetto siciliano, “Il berretto a sonagli” di Gabriele Lavia recupera tutto l’humour nero e le asperità linguistiche di un testo tanto sublime quanto faticosamente digeribile e politicamente scorretto, così da condurre lo spettatore a condividere una malcelata indagine tra le pieghe e le piaghe dell’infinito – e quindi, come detto, ancora attualissimo – contrasto tra classi e sessi, coi padroni / mariti impegnati a rendere esplicito il proprio dominio ed i subalterni / mogli alla ricerca di un riscatto, in una società che prima finge d’accettare questi moti rivoluzionari e poi giunge a bollare di follia il rifiuto di Beatrice di sottostare alle sue inossidabili leggi, cosicché si possa dare solo l’ingannevole illusione che tutto sia possibile, che tutto possa trasformarsi, ben sapendo che nulla potrà mutare, che, in sostanza, ‘gattopardosticamente’ tutto cambi perché nulla cambi. Mai.

Pasquale Attolico

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