Scegliere di confrontarsi con uno dei capolavori di Akira Kurosawa è pura incoscienza che solo in un momento di follia può cogliere un regista. Già il maestro giapponese, con il suo Vivere (Ikiru) del 1952, aveva fatto la scelta, all’epoca abbastanza azzardata, di trasporre un racconto di Tolstoj – La Morte di Ivan Il’ič – in maniera apparentemente disorganica con continui flashforward e flashback, che conducono alla fine del racconto ed alla sua morale. A differenza dell’autore russo, che aveva incentrato il racconto sulla futilità della vita e sulla inutilità del nostro passaggio sulla Terra, il regista giapponese aveva cercato un timbro più satirico e graffiante per rappresentare la società di allora, la pessimistica impossibilità di cambiare veramente le abitudini umane e, soprattutto, la forza invasiva e, per certi versi, distruttiva della routine che, un giorno dopo l’altro, soffoca ogni pensiero e ogni possibilità di fuga dall’abitudine.
Fatti gli aggiustamenti del caso, Oliver Hermanus ambienta la vicenda del suo “Living” nella Londra del 1952. Epoca abbastanza lontana da rappresentare un mondo diverso da quello in cui viviamo oggi ma sufficientemente vicina da non essere entrata nella storia molto lontana (tipo 1852) o addirittura nel mito. La scelta del luogo e del momento storico ha consentito al regista di individuare un modo di rappresentare il personaggio, vestito in quella specie di divisa che contraddistingueva il gentleman inglese della prima metà del 900. Cravatta e abito, nella specie sempre un rigato, scuri, camicia bianca, bombetta e inseparabile ombrello. La vita del nostro, burocrate pignolo ed insensibile, responsabile della più formale insensatezza amministrativa, verrà, come nel racconto e nel film da cui trae origine, sconvolta dall’evento che noi tutti temiamo. Ovvero l’annuncio della fine.
Quando parte il cronometro definitivo, dopo un iniziale sbandamento, Mr. Williams, che non ha il coraggio o la voglia di raccontare del suo male al figlio, troverà la forza di dare uno scopo se non alla vita almeno alla sua fine.
Raccontato in un gioco fra la terza persona, un giovane impiegato dell’ufficio comunale diretto da Williams, e la prima singolare, lui che nei dialoghi racconta se stesso, ricco di fughe in avanti e salti indietro, come nell’originale, il film si snoda in maniera volutamente non lineare ma, anche in questa specie di gioco dell’elastico, privo di un vero ordine logico se non emotivo.
La rappresentazione di quello che avviene dopo la morte, come la trasformazione del nuovo capo ufficio il quale, dopo aver promesso di non diventare mai come Williams, si trasforma nella copia del suo grigio predecessore, è vissuta come conseguenza naturale e quasi ovvia. Il film non graffia e i momenti di poesia tendono alla sdolcinatura. Non c’è la compenetrazione del dramma senza lacrima ma si tende ad una rappresentazione che, per così dire, incoraggia il gusto affettato. Manca l’amaro pessimismo che, invece, la premessa lasciava presagire e l’originale di Kurosawa raccontava in modo sublime.
Nella sceneggiatura di Kazuo Ishiguro sembra predominare il ricordo dell’Inghilterra scomparsa, nell’imminenza degli eventi che, nei primi anni 60 del secolo scorso, stravolgeranno un modo di rappresentare se stessi. (Il Williams della prima parte assomiglia tanto allo Stevens di Quel che resta del Giorno dello stesso autore, trasposto magistralmente da Ivory).
In questo film va segnalata l’interpretazione di Bill Nighy, Mr. Williams, sempre molto british anche quando canta, ubriaco, una canzone scozzese. Il suo doppiatore, Gianni Giuliano, gli dà una voce meno dolorante e sommessa dell’originale, più rotonda. Bisogna però dire che in questo caso il doppiaggio era veramente complicato.
Forniscono buona prova di sé Aimee Lou Wood (doppiatrice Lucrezia Marricchi), nel ruolo di Margaret Harris, giovane impiegata, e Alex Sharp (doppiatore Davide Perino) nel ruolo di Mr Wakeling, l’impiegato che racconta Mr. Williams.
Bravi gli altri, cui però la sceneggiatura lascia poco spazio.
La colonna sonora è molto bella e da sola regge una parte importante del film, sottolineando e impregnando le scene senza dialoghi.
Un film nell’insieme ben riuscito, che però non riesce a spiccare il volo.
Nei cinema.
Marco Preverin