Ogni grande regista nel corso della sua vita sembra avere la necessità di confrontarsi con se stesso, con il passato e la propria storia. Lo ha fatto Fellini in molteplici opere, lo stesso Visconti, che pure aveva messo un po’ di sé nella figura di Helmut Berger, si autorappresentava nei suoi film. Più di recente sia Martone, con Nostalgia, sia Sorrentino, con È stata la mano di Dio, ci hanno accompagnato, indirettamente o direttamente, nel loro passato, o meglio, nel loro sguardo verso il vissuto meno recente.
Così Steven Spielberg con questo “The Fabelmans” ci racconta, con molto pudore, se stesso attraverso i ricordi della sua vita familiare, del suo rapporto con i genitori e del suo amore per il cinema, un racconto, in realtà, già abbozzato con il precedente “Super 8“, pellicola che poi svoltava verso la più pura fantascienza.
Una madre che ha rinunciato alla sua carriera artistica per seguire il più solido ed intelligentissimo marito, ingegnere con intuizioni moderne e all’avanguardia. Quindi la contrapposizione classica, e credo sempre meno vera di come ci viene rappresentata, tra l’intelligenza artistica labile e umorale rispetto a quella solida e concreta dell’ingegnere. Tra i due l’ingombro del “migliore amico”, con gli sviluppi facili da prevedere e i dubbi del giovane Spielberg insieme, per una buona parte del film, a noi spettatori.
Naturalmente, come ci dice lo stesso regista, non si tratta di metafore ma di veri ricordi e, quindi, non è possibile alterarne l’essenza se non per la visione del giovane Steven. Il soggetto nasce da un lavoro di Anne Spielberg, sorella di Steven e sceneggiatrice, per poi essere sviluppato dallo stesso regista e da Tony Kushner. Naturalmente non stiamo parlando di un regista europeo, da noi più incline ai particolari che alle grandi scene, anche per una questione di soldi, ma di un maestro del cinema americano. Nulla di didascalico o di eccessivamente approfondito, violerebbe il pudore dei sentimenti. È la vita mostrata nel suo svolgersi per ricordi e immagini. La mente del regista ci trasferisce la nascita del suo amore per il cinema unitamente alla complessità dei sentimenti che legano, prevalentemente, figlio e madre. La genitrice che crede nella vocazione del figlio e, a differenza del solido padre, non la chiama hobby, occupa in maniera predominante la scena. Confidente e al tempo stesso stimolo a iniziare e proseguire la carriera artistica. Come se lei riversasse sul figlio le aspirazioni frustrate ed i sogni irrealizzati.
Poco presente, malgrado la primogenitura nel soggetto e nella scenografia, la figura della sorella più grande (la secondogenita), inquadrata, quale personaggio attivo, solo in poche scene. Gli altri due, una sorella ed un fratello, sono solo sfondo senza di fatto alcun dialogo con Sam/Steven. Figura non meno importante la prima compagna, quella del liceo americano, che lo stimola e lo convince a riprendere la cinepresa e a fare un nuovo film. Forse sono solo ricordi, ma il messaggio è chiaro, almeno per lui.
La colonna sonora di Felix Erskine è in linea con i film di Spielberg: non immaginatevi niente di meno di un’orchestra ampia e formata da ottimi elementi
Gli attori si muovono così come vuole il regista, la cui autorità è indiscussa. Le parti femminili sono le più curate e Michelle Williams (doppiata dalla bravissima Chiara Colizzi) nella parte di Mitzi Fabelman, la mamma, riesce a donarci sguardi e atteggiamenti fisici intensi. Cloe East (doppiata dall’ottima Emanuela Ionica), nella parte di Monica Sherwood, rende una giovane americana degli anni 60 in maniera credibile e sufficientemente ironica. I maschi della famiglia si muovono con attenzione e Seth Rogen (ben doppiato da Simone Mori), che interpreta Bennie Loewy il migliore amico, pur bravo si mantiene su un registro abbastanza banale (lo avrà voluto il regista?). Ben altro spessore quello di Paul Dano (doppiato da Emiliano Contorti) che non smette mai di adorare sua moglie con grande profondità. Ultimo Gabriel LaBelle (doppiato da Federico Campaiola), Sammy Fabelman/Steven Spielberg. Più che un’interpretazione, un filtro fra il regista e la cinepresa portatile delle scene del film. Aveva il compito più difficile ed è riuscito a portarlo a termine senza errori (almeno vistosi) e non era certo facile. Infine, due piccole parti per due giganti: Judd Seymore Hirsch (doppiato perfettamente da Paolo Marchese) Bronx allo stato puro. Entra ed esce di scena con poche battute, ma recitate così bene che lasciano il segno, ed un magnifico David Lynch (doppiato da Gianni Giuliano) che, fedele alla sua visionaria arte, interpreta un regista che rifà, memorabilmente, un regista impossibile.
Insomma un film di Spielberg, bello come tutti i suoi.
Andate a vederlo al cinema.
Marco Preverin