“Sexual violence doesn’t start and end with rape
It starts in our books and behind our school gates
Men are scared women will laugh in their face
Whereas women are scared it’s their lives men will take
Mother
Fucker”
(“La violenza sessuale non inizia e finisce con lo stupro
Inizia nei nostri libri e dietro i cancelli delle nostre scuole
Gli uomini sono spaventati che le donne ridano loro in faccia
Laddove le donne sono spaventate che gli uomini tolgano loro la vita
Figlio
Di buona mamma”)
(“Mother” – Idles)
Ci sono molti modi per diventare una leggenda della storia delle arti. Si può avere una lunga carriera, costellata di alcuni successi fulgidi e altri più tiepidi, costruendo e celebrando memoriali ai decenni di attività. Oppure, si può avere un percorso incredibile, diventare irripetibili finanche per le generazioni future, e morire giovani.
Sì, morire giovani è uno degli indizi, fortunatamente non quello dirimente, per diventare eterni. Morire giovani cristallizza la memoria dei successi che scaturiscono con maggior vigore, e la morte di un giovane ha quasi sempre dello spettacolare, perché trova nello stravizio, o nell’incidente della velocità, la sua causa. È successo a Mozart, è successo a Kurt Cobain, è successo a Amy Winehouse e a Pino Pascali.
È successo anche a Annibale Ruccello. Molto più prolifico, di successo, ricerca e rottura per essere definito una semplice promessa, Ruccello trova la morte a trent’anni, nel 1986, in un incidente automobilistico. Tra i suoi ultimi lavori, che danno notevole risalto alla lingua napoletana studiata e parlata, figura “Mamma”, pièce teatrale composta proprio nel 1986, che originariamente si chiamava “Mamme”, e che in alcune trasposizioni porta il sottotitolo “Piccole tragedie minimali”.
La Compagnia Licia Lanera dà il suo personale lavaggio al bellissimo testo di Ruccello, e lo porta in città in una serata tra le più luminose feste comandate dell’anno, nella cornice dell’Auditorium Vallisa. Il compito della messinscena è affidato alla regia e all’interpretazione di Danilo Giuva, particolarmente ispirato e nella parte, anzi, nelle parti, come dirò fra poco, la consulenza artistica di Valerio Peroni e Alice Occhiali, le luci di Cristian Allegrini, le musiche e i suoni di Giuseppe Casamassima, il fondale (un cuore anatomico tatuato molto prima che diventasse di moda) di Silvia Rossini.
E’ quasi sardonico che la pièce vada in scena durante le feste natalizie, perché sono uno dei periodi in cui la madrità, quella traccia radicale cui si può scegliere di non arrivare, ma da cui non si può prescindere per nascere, viene messa alla prova più dura: conflitti irrisolti, possessività non sfogate, assenze insostenibili, desideri soffocati, manuali inesistenti per fare i figli e per fare i genitori, trasformano le festività in un osservatorio antropologico e psicanalitico che investe le dinamiche di tutte le famiglie. Un parametro temporale irresistibile per lo stile iperbolico e viscerale che unisce la cifra di Ruccello a quella dello “Stile Lanera” a doppia elica.
Difatti, Giuva impersona benissimo le protagoniste delle tre tragedie minimali consegnate da Ruccello ai nostri giorni: una spietata Catarinella e la sua favola horror del Principe Serpente; “Miezzoculillo”, una Madonna involontaria fulminata dallo Spirito Santo, internata in un convento, schernita dalle sedicenti mamme, anzi madri, che si fregiano del pedigree da “figlie di Maria”. Soprattutto, appare funestamente profetico il finale de “Il re dei Piriti”, in cui una casalinga disperata, ripetutamente mamma, irresistibile nelle sue nevrosi e nelle sue pose al limite del vogueing e del drag, va incontro al triste destino di una mamma giovane.
Morire giovane è il finale più tragico per una vita, ma il più glorioso per una tragedia.
Beatrice Zippo