Gli scaffali delle librerie e i cataloghi delle case cinematografiche sono pieni di gialli, di misteri inestricabili che il detective di turno sbroglia con acume e intelligenza.
Quasi un archetipo in ognuna di queste storie.
La differenza, si sa, la fanno i personaggi, anzi il personaggio.
L’investigatore/trice che, solo grazie alla sua capacità di trovare il filo che collega elementi, spesso minuscoli particolari, in apparenza del tutto slegati fra loro, riesce a svelare il mistero. La ricerca, implacabile e costante, della verità dei fatti, molto raramente delle motivazioni, è la sostanza della trama ma è la caratterizzazione dei personaggi che dà veramente spessore alla storia.
L’inesauribile saga di Sherlock Holmes, recentemente tornata ai fasti cinematografici, o di Miss Marple, o ancora dell’inesausto Salvo Montalbano, trova in “La legge di Lidia Poët” una degna continuatrice. Naturalmente, non siamo alle prese con il detective dell’87° distretto che batte le strade di New York bazzicando nei suoi bassifondi, né nel regno dei crimini sofisticati del Hercule Poirot, tutto lusso e omicidi.
Siamo nella Torino di fine Ottocento. L’Italia come nazione esiste da poco più di venti anni e l’integrazione del paese è ben lungi dall’essere realizzata. La società è quella sabauda, rigida e bacchettona. Persone serie, si direbbe, con il vizietto dell’omicidio e, gratta gratta, non solo. In questa piccola foresta urbana – non si può certo parlare di giungla – nasce e cerca di inserirsi la nostra giovane Lidia Poët. Tratta da una figura realmente esistita, la prima donna ad essere iscritta nell’Ordine degli Avvocati (ma solo nel 1920 a pieno titolo e definitivamente), la caratterizzazione del personaggio di Lidia segue strade diverse, dandole contemporaneità e leggerezza, qualità indispensabili per rendere godibili le storie giudiziarie italiane che, nella realtà, sono tanto terribili quanto noiose (per completezza vi consiglio la lettura della pagina Wikipedia sulla vera Lidia Poët).
Una donna giovane, intelligente, forte, indipendente, determinata, inopportuna, testarda e anche abbastanza rompiscatole.
Insomma, un’eroina a tutto tondo che veste gli occhi scintillanti e l’ovale di Matilda De Angelis. Impeccabilmente curiosa, riesce a dare un tono ironico e misuratamente sfrontato al personaggio di una donna di oggi calata – suo malgrado – nel 1883 o giù di lì.
Gli sceneggiatori, Guido Iuculano, Davide Orsini, Elisa Dondi, Daniela Gambaro e Paolo Piccirillo, affiancano alla spigliata Lidia un insieme di figure che interagiscono in maniera non subalterna con la nostra eroina. Primo fra tutti Pier Luigi Pasino, nelle vesti di Enrico Poët, fratello di Lidia, che – nella finzione come nella realtà storica – consentì alla nostra l’esercizio di fatto della professione di avvocato, negata dall’ottusità dei giudici dell’epoca. Detentore di un ricco curriculum teatrale, Pasino affronta la personalità di un ricco avvocato borghese e sabaudo, rigido ma non privo di slanci, rendendo il personaggio in maniera classica, senza enfasi, ma con ottimo spessore interpretativo.
Eduardo Scarpetta, nel ruolo di Jacopo Barberis, fascinoso e ambiguo giornalista nonché cognato convivente di Lidia e, infine, suo amante, è una specie di interessato Dottor Watson, senza le ingenuità del ruolo inventato da Doyle anzi con italico cinismo, che intralcia la sfera emotiva della Poët e la costringe, ogni tanto, a fare i conti con se stessa.
Dario Aita intrepreta con leggerezza Andrea Caracciolo, simpatico avventuriero e giramondo, spirito libero e moderno, amante ‘storico’ di Lidia, che appare e scompare con altrettanta velocità.
Sinéad Thornhill e Sara Lazzaro, rispettivamente figlia indocile e moglie iperconformista di Enrico, finiscono di comporre il quadro familiare dei Poët, completando l’ambiente base in cui l’aspirante avvocata si muove.
Una bella Torino, con la mole in costruzione sullo sfondo, insieme ad ambienti, ricchi o poveri, oppure torbidi e lascivi, minuziosamente disegnati, fanno da scenografia ricca e molto gradevole. Non come era ma nell’idea di come potesse essere una città della fine del diciannovesimo secolo, positivista e in pieno confronto con la modernità che avanzava.
I costumi e le acconciature, dell’interprete principale soprattutto, sono sempre curati nei particolari come i cappellini delle signore e le molteplici fogge di baffi e barbe degli uomini.
Per quel che mi riguarda ho molto apprezzato la lingua. Un italiano preciso e con giusto un po’ di cadenza piemontese, si sente leggermente nelle e. Facile da ascoltare e senza le brutte copie di Camilleri.
Le musiche, ad ulteriore conferma della astoricità della serie, sono improntate a soddisfare i gusti contemporanei, in particolare 2WEI con Boom Boom (https://youtu.be/D_KJPYFkXnc).
La regia di Letizia Lamartire e Matteo Rovere, che firma solo i primi due episodi, ha una altissima cifra stilistica e risulta sempre priva di involuzioni, lineare ma innovativa al tempo stesso, con abbondanza di primi piani della De Angelis, evitando però di canonizzarla, e scevra dalla paura – tutta italica – di mostrare i corpi dei protagonisti, filmati senza puerile pudore, bensì con una innata naturalezza.
Una serie / non serie (sono sei racconti autonomi, legati dal filo rosso delle storie dei personaggi e non dei casi da risolvere, anche se il finale lascia già presupporre una auspicata seconda stagione) che, con il tono della leggerezza, esce dalla media dei prodotti televisivi attuali e si eleva ai livelli delle migliori produzioni internazionali.
Una piccola e ultima notazione spetta alla casa produttrice Groenlandia, una delle poche, forse l’unica, che cerca di fare qualcosa che si distacchi dalla serialità delle idee in circolazione (si pensi alla trilogia di “Smetto quando voglio”).
Da vedere assolutamente.
Solo su Netflix.
Marco Preverin