“You’ve changed the locks three times
He still come reeling through the door
One day I’ll get to you
And teach you how to get to purest hell
You do it to yourself, you do
And that’s what really hurts
You do it to yourself, just you
You and no one else
You do it to yourself”
“Hai cambiato la serratura tre volte
E continua a entrare barcollando dalla porta
Un giorno ti beccherò
E ti insegnerò come andare nel peggior inferno
Lo fai a te stesso, lo fai
Ed ecco cosa fa davvero male
Lo fai a te stesso, solo a te stesso
A te stesso e a nessun altro
Lo fai a te stesso”
(Radiohead, “Just”)
La democrazia è un esercizio difficile. La democrazia impone la gentilezza, la democrazia insegna che prevaricare l’altro è sbagliato. La democrazia può voler dire che prevaricare l’altro, quando è idiota, può essere addirittura crudele.
È così che, nelle democrazie che amano definirsi mature, nascono le varie cancel culture, insiemi di ideologie che in nome del rispetto di facciata, eliminano intere zone del pensiero e dell’espressione: in breve, ci viene detto che non siamo solo responsabili di ciò che diciamo, siamo anche responsabili di ciò che viene compreso, e nel dubbio che non venga compreso, dobbiamo astenerci. Siamo competenti per la famiglia di appartenenza di chi ci ascolta, siamo responsabili delle case che gli altri abitano, è nostra cura capire chi ci ascolta, ma anche chi non ci ascolta e in quel momento non c’è.
Una vera dittatura del proletariato, che non è più basata sulla capacità di una classe di fornire mezzi della produzione alla classe superiore, ma sulla prepotenza di una comunicativa puerile, che applaude tutti quelli che dicono una poesia, finanche mediocre, in piedi sulla sedia, che assente arridendo a ogni rigurgito e ruttino della mente, a pena dei peggiori capricci e dispetti immaginabili.
Ecco dove deflagra il teatro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella con il loro “Hybris”. Il duo è reduce dalla recente uscita cinematografica de “Il Cristo in gola”, che ho visto al Cineporto di Bari. Lungi da me farne una recensione in questa sede, il film, ambientato nella cristologica-pasoliniana-gibsoniana Matera, narra di una divinità rotta di scatole, tra un’umanità ignava e un demonio pacioso e confidenziale di cui quasi quasi ci si può fidare più che di un Padre accecato dal sadismo.
“Hybris” è l’ultimo nato nella nidiata teatrale targata RezzaMastrella, in debutto regionale per la Stagione 2022-2023 del Teatro Kismet di Bari denominata “Sconfinamenti”, a cura di Teresa Ludovico. Al solito, Antonio Rezza, oltre a essere il personaggio principale, ne è il regista e drammaturgo della scrittura, laddove la drammaturgia spaziale è determinata da Flavia Mastrella. Il cast, oltre all’attore/feticcio di Rezza, ossia Ivan Bellavista, nei deliziosi panni di un ladyboy vinilico, vede Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e la partecipazione straordinaria di Cristina Maccioni. La produzione, oltreché RezzaMastrella, annovera La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello e il Teatro di Sardegna.
La quinta e il proscenio assumono una forma poliedrica, mai statica lungo tutto lo spettacolo. Il boccascena è una porta, trascinata su tutto lo spazio, aperta e chiusa ossessivamente per delimitare chi c’è e chi non c’è, il dentro e il fuori, chi chiede di entrare e chi chiede di uscire, il metaretropalco e il metapubblico, in uno spettacolo di teatro totale che valica qualsiasi riferimento di scuola.
Tutto è relativo, al di qua e al di là della porta spalancata e sbattuta decine e decine di volte, eppure tutto è chiaro. Di fronte a una realtà in cui alle volte alcuni sono gli altri, e in altri casi gli altri sono altri, e questa classificazione è del tutto irrazionale, l’unico parametro di controllo è l’alter ego Tonj, rigorosamente con la J: noi siamo gli altri, gli altri siamo noi, solo che non ce ne accorgiamo perché questa alterità cammina sotto i nostri piedi. Non ci accorgiamo della violenza che subiamo o che avviene nelle angustie dell’umanità, perché siamo noi stessi un’angustia autoconcludente e autoavverante. Siamo così concentrati a imporci e a farci imporre l’idea di altro che non sappiamo più neppure chi siamo, chi pensiamo di essere e chi possiamo essere, se solo prendiamo consapevolezza di noi stessi.
Un dispositivo può tirarci fuori da tutta questa tracotanza: bestemmiare aiuta. E, non potendo bestemmiare, ci possiamo sempre dotare di un fischietto, pratico, incisivo, a prova di cronaca nera. Siccome la storia del nostro Paese è costellata di comici presi grottescamente sul serio, sotto le cui risate siamo stati seppelliti (e pure da qualche ginecologo travestito da santone, come ci ricorda Rezza ogni oltre ragionevole dubbio), tanto vale riemergere dalle nostre fosse bestemmiando, anzi fischiando, molto forte.
“Ci si conosce sotto i piedi, nulla può durare a lungo quando due persone si incontrano esattamente dove sono: e dove stanno non si vede bene perché ci sono i piedi sopra. I rapporti finiscono perché nascono sotto i calcagni, senza rispetto. Piccoli dittatori che fanno della posizione la loro roccaforte. Ma poi barcollano con una porta davanti gestita da un carnefice inesatto che stabilisce dove gli altri vivono. Non cambia molto essere un metro oltre o un metro prima, ma muta lo stato d’animo di chi sapeva dove era e adesso ignora dove andrà perché non sa da dove parte. […] Dovremmo imparare a bussare ogni volta che usciamo, perché fuori ci sono tutti, l’esterno è proprietà riservata, condominio esistenziale, casa aperta.” (Antonio Rezza e Flavia Mastrella)
Beatrice Zippo
photo credit pagina Facebook RezzaMastrella