Il cinema francese è forse quello più teatrale di tutti. Sono film fatti di attori e situazioni più che di sparatorie ed effetti speciali. La storia è spesso un mero stratagemma per raccontare emozioni con la velocità espressiva, soprattutto linguistica, che è attributo tipico delle rappresentazioni francesi. Se poi si riesce a disegnare tipi e caratteri che mettono in ridicolo la o le autorità, meglio. La burocrazia, poi, con i suoi riti, i suoi intorpidimenti, fornisce l’ambiente ideale per rappresentare al meglio quella forma di commedia che sta tra la farsa popolare e la comicità pura.
Se ci aggiungiamo un po’ di commedia americana alla Lubitsch, in cui il non detto equivale al proclamato, e lo adattiamo ai nostri tempi, ecco che ci arriva questo Mon Crime (La colpevole sono io).
Tratto, e rimaneggiato, da una commedia del 1934 di Georges Berr e Louis Verneuil, il film si srotola in maniera vivace e sostenuta per tutta la sua durata senza mai far venir meno né la verve né, si può dire, una classe nella rappresentazione che oggi non è comune. Non ci sono volgarità e anche l’unica scena di mezzo nudo riesce a sembrare quasi pudica.
Françoise Ozon, in una delle sue molte vite da regista, ci mette un po’ tutto, dall’imbroglio, all’amore non espresso e non visto, al mistero, alla farsa giudiziaria e processuale. I potenti sono tutti uomini e, sostanzialmente, dei tromboni che cercano solo di riaffermare il proprio potere sulle donne ma, appunto perché smargiassi, riescono solo a confondersi e perdere miseramente il confronto con donne intelligenti, sottilmente astute e inevitabilmente vincitrici. Il tutto non disgiunto dalla critica, leggera e mai irridente, delle posizioni del me too che diventano giustificazione di ogni azione e sono usate anche per ottenere successo e denaro.
Il finale, non lieto ma divertente, così simile ad alcuni (pochi purtroppo) film americani, ricuce anche lo strappo con il gusto contemporaneo del paradosso, riuscendo a far diventare la realtà criminale (criminale da operetta) un evento ricco di prospettive. I sotterfugi e le furberie, sempre narrativamente in bilico tra il bisogno di nascondere la realtà e la verità che fa capolino tra le pieghe delle bugie, generano continue situazioni utilizzate per partorire ulteriori scambi di battute recitate con brio.
La scelta delle figure delle due eroine, la bionda e la bruna, l’arrivista e l’altruista, l’innamorata di se stessa e la conquistata dall’altra, si contrappongono senza scontrarsi, ma anzi collaborando in uno sconclusionato processo.
Nadia Tereszkiewicz, nella parte di Madeleine Verdier, e Rebecca Marder, nella parte di Pauline Mauléon, reggono di fatto l’intero percorso, destreggiandosi tra le trappole che Ozon semina per il sentiero della storia senza mai fermarsi né guardarsi indietro.
Le loro doppiatrici, rispettivamente Emanuela Ionica e Giulia Frenceschetti, più attrici che doppiatrici, ce la mettono tutta, ingranano il turbo e scattano anche loro cercando di rendere al meglio la lingua ed il modo di recitare francese. Per nostra fortuna ci riescono.
Personaggi di contorno (anche se talvolta il contorno se non è ben fatto rovina il piatto) gli ottimi Isabelle Huppert, nella parte di Odette Chaumette, diva più che attrice (meravigliosamente doppiata da Alessandra Korompay), Fabrice Luchini, nella parte di Gustave Rabusset, divertentissimo giudice istruttore imbranato (doppiato dal sempre ottimo Marco Mete) e Dany Boon, nella parte di Palmarède, fascinoso paladino della Verdier, doppiato a sua volta da Alessio Cigliano.
L’ambientazione non sfigura rispetto al più generale tono del film, le nostre, anche quando vivono in povertà, vestono sempre con lo stile e l’eleganza francese tipica degli anni 30 del secolo scorso.
Per chi ama il genere, un film da vedere.
Marco Preverin