“Ritorno a Séoul” di Davy Chou con Park Ji-Min è un film che colpisce ma non emoziona fino in fondo

A tutti capita di sentirsi fuori posto, nel senso di sentire che l’aspetto fisico, quello mentale, psicologico o più semplicemente l’emozione del momento, ci fanno sembrare, ai nostri occhi, diversi da chi ci circonda. Un’anomalia in un universo fatto di uguali.

La nostra orbita non è circolare, ma cambia e ci porta in traiettorie che non avremmo previsto.

Così la nostra Freddie, così chiamata in Francia, è una coreana data in adozione e, pur amata dai suoi genitori adottivi, non riesce a trovare il “suo” posto. Ha la necessità di capire e di svelare meglio se stessa a se stessa attraverso la ricerca dei suoi genitori naturali.

Il regista Davy Chou con questo “Ritorno a Séoul” ripropone una storia, come tutte le storie di esseri umani, vista in molti racconti, riesce però a darne una lettura più originale perché, come ci spiega lui stesso, legata alla vicenda di Laura Badfule. Si tratta però solo di una traccia, perché nel progresso dell’opera, il personaggio si sviluppa seguendo una logica di ricerca dell’annullamento della sua anomalia più che seguire il solo filone dell’amore genitoriale forse perduto.

Tutto ormai è fuori posto. La lingua, le abitudini l’approccio culturale.
È il modo di essere dell’anomalia. Si è sviluppata autonomamente rispetto alla sua “origine”.
Davy Chou, anche quando ci racconta la sua esperienza personale, lascia il segno visibile dell’incertezza generata dalla dissomiglianza: “Sono nato in Francia da genitori nati in Cambogia. Sono stato in Cambogia per la prima volta quando avevo venticinque anni. Il mio rapporto con quel paese era simile al rapporto che Freddie ha con la Corea del Sud all’inizio del film. Non immaginavo minimamente che quel ritorno alle radici avrebbe stravolto la comprensione che avevo di me stesso. La vita ci porta a risemantizzare le identità e la nostra relazione con il mondo e con noi stessi. La prospettiva che a me, in quanto regista francese razzializzato, interessava era il percorso intrapreso da una persona che rifiuta continuamente di adattarsi a una classificazione predefinita o al fatto che qualcun altro parli per lei. Freddie passa il tempo a reinventarsi, ridefinirsi e riaffermarsi. È la tematica universale dell’identità. Chi sono? Qual è il mio posto nel mondo? Dove mi colloco rispetto agli altri?

Park Ji-min, visual artist e attrice, rende in maniera enigmatica (per noi occidentali) la figura di Freddie (Frédérique Benoit) ma non riesce veramente ad emozionare. È una specie di opera astratta. L’interpretazione coglie pienamente nel segno dell’intelletto e, in taluni momenti, affascina, ma il piacere intellettuale non si trasforma quasi mai in quel coinvolgimento che smuove la passione. Quasi che Park volesse trasmetterci quel duro carapace emozionale, profondo, dal quale non escono che le braccia e la testa. Il personaggio difende se stesso per non soccombere. E salvo la figura del padre, ben interpretato da Oh Kwang-rok, gli altri attori sono poco più che comparse.

Il doppiaggio della sempre brava Lavinia Paladino, per quanto accurato, probabilmente non riesce a rendere appieno lo sviluppo linguistico del personaggio.

La bella colonna sonora di Jérémie Arcach e Christophe Musset è in linea con l’idea trasmessa dal film e con la fotografia colorata e tecnologica della Corea del Sud.

Nell’insieme, un’opera che sicuramente colpisce per il suo approccio diretto, al quale bisogna ascrivere la giusta scelta di lasciare inalterata, sempre, la barriera ligustica che viene eliminata solo di tanto in tanto, per le evidenti necessità narrative.

Marco Preverin

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