Uno di quei film di formazione di cui se ne vedono pochi in giro e che dovrebbero essere curiosa visione delle giovani d’oggi, delle loro madri per meglio comprenderle, dei loro padri per essere ripieni e rigenerati dalla bellezza interio-esteriore da cui sono circondati.
Opera prima di quelle significative della anglo-australiana Frances O’Connor che ne cura anche la sceneggiatura, con “Emily” viene ad essere romanzata la di lei breve vita che si spegnerà a soli 30 anni.
Ma, “di lei” chi? Si sta discorrendo di Emily Brontë, sensibilissima scrittrice e poetessa inglese che deve la sua fama e fortuna al romanzo “Cime tempestose” (pubblicato nel 1848), pietra miliare della narrativa ottocentesca mondiale. Preme, tuttavia, sottolineare come il termine “romanzare” rinvii ad una visione personale, in questo caso della sceneggiatrice del film, di quanto
accaduto o meno nella vita “reale” della Brontë a causa di taluni aspetti che si vogliono mettere in luce rispetto ad altri. Questo dato è importante sottolinearlo e risulta essere la guida di lettura di questa perla cinematografica.
Emily Brontë (la strana, come era chiamata in casa da tutti: quante “dolcezze strane”, di cui andiamo orgogliosi, popolano le nostre famiglie, diciamocelo) è l’autrice, si diceva, di “Cime Tempestose”, il capolavoro letterario inglese di metà ottocento. La regista O’Connor, folgorata sin dall’adolescenza dalle vertigini che in lei ne aveva provocato la lettura, ne propone una sua personalissima riduzione esemplare, una “scrittura di formazione” trasportata, per osmosi, sul grande schermo.
Il grido “libertà di pensiero!” che Emily strilla a squarciagola per la ventosa brughiera inglese, aleggia per tutta la durata della pellicola. Trattasi di ben 130′ filmici-agro-dolci ma occorre dire che è tale la profondità e la maestria raggiunte nello sviluppo del narrare (grazie ad un perfetto montaggio firmato Sam Sneade) che quell’incedere trascorre suadente senza che ce ne si accorga
come se si stesse assistendo, in visione, al vissuto di una cara amica di famiglia.
In questo, il delizioso accompagnamento musicale di Abel Korzeniowski fa di “Emily” un’opera di livello elevato: accademica ma con equilibrio; interpretativa, curata e diretta con polso misurato; sceno-fotografica di quelle toccanti ma mai esteticamente troppo “compiaciuta” del paesaggio inglese da mostrare (Manu Segal, un plauso).
Nei panni della ribelle Emily vi è una magnetica e veramente brava Emma Mackey, dai mai quieti grandi occhi ipnotizzanti, il cui vertiginoso tormento interiore ricorda molto nelle atmosfere e nelle sensazioni trasmesse, quelle di un’altra eroina (simbolicamente muta) a sua volta anche lei provata profondamente nell’animo, dal nome di Ada McGrath, indimenticata interprete di Holly Hunter in “Lezioni di Piano” (1993) di Jane Champion, regista-sceneggiatrice neo zelandese. Anche in quel film,
un delizioso e suadente accompagnamento musicale firmato Michael Nyman ne evidenziava intimo spessore. In questa produzione, Korzeniowski, firma pezzi intimistici in cui gli intensi “Wuthering Heights” e “The Autumn Tree”, fermano il cuore durante la lirica visione. Medesimi incanti.
Per concludere, il film ha una dedica particolare da parte della regista: questa “lettera d’amore” (così ha espressamente indicato) è stata scritta per tutte le ragazze così da far loro comprendere di accettarsi così come si è senza trasformarsi in ciò che altri vorrebbero che si fosse.
Wow! Che grande donna la O’Connor! Perché darle torto.
Film da non perdere, magari in una rassegna estiva di provincia di una fresca e ventilata magica notte stellata “on the English moor” (sulla brughiera inglese).
Vito Lopez