Un “grido dal silenzio” per voler parafrasare il titolo di un’altra simil-pellicola di molti anni fa, “Urla del Silenzio” di Roland Joffé del lontano 1984, quello che proviene dall’animo dopo aver visionato “Houria”. A distanza di quasi quarant’anni da quel film, la “Voce della Libertà” algerina deve fare i conti con un mondo differente (ne siamo proprio sicuri?) ma con gli stessi soprusi rivisitati all’ombra della propria storia: il decennio nero della sperata “primavera araba” di fine 2010 apportatrice invece di nefaste conseguenze (quelle della guerra civile, per intenderci); l’altamente rischioso richiamo migratorio algerino verso la vicina Spagna; la storica condizione di inferiorità della donna nella società patriarcale musulmana.
Questi i temi presenti in “Houria – La Voce della Libertà“, questa piccola perla cinematografica di “impegno” a firma della 45enne regista algerina Mounia Meddour residente a Parigi che ne cura anche la penetrante sceneggiatura. Aveva dichiarato di “aver l’intenzione di raccontare una storia che parlasse del suo Paese oggigiorno”. Ed ha colpito facendo centro. Con “Houria” (“Libertà” in arabo, titolo non certo scelto a caso) una profonda ed intimistica riflessione sul ruolo della donna in Algeria e la sua difficoltà nel salvaguardare spazi vitali raggiunti, difesi con le unghie e con la rabbia (è di poche ore la notizia che i Talebani in Afghanistan abbiano ordinato di chiudere tutti i centri estetici del Paese frequentati dalle donne: altra storia ma medesima ulteriore limitazione femminile del vivere. Perché?).
Ed è di questa chiusura di spazi vitali che tratta il film: l’amore dell’interprete principale Houria (una brava Luna Khooudrí, che espressività!) per la danza classica ed il potersi affermare all’Accademia di Danza Nazionale immolato a causa di violente vicissitudini che la vedranno scagliata ai margini sociali anche a causa della connivenza di uno Stato colpevolmente maschilista da cui ci si aspetterebbe invece protezione.
Il conseguente e traumatico mutismo sviluppatosi in Houria sarà la risposta psicologica a quella colpevole violenza subìta, da un lato. La solidarietà femminile di altre donne emarginate e violate come lei nel corpo e nello spirito ma unite nel dare un senso alle battaglie condotte, dall’altra.
Interpretazione sublime quella della Khoudrí (già peraltro nota al pubblico cinematografico) dallo sguardo magnetico, come giusto che sia, così da riuscire a trasmettere allo spettatore la “forza” dirompente del linguaggio del fisico violato che si ribella ad ogni barbara violenza a cui viene sottoposto.
Di qui l’arte sagace della regista Meddour nell’utilizzare primissimi piani di parti del corpo tese e sotto sforzo per evidenziare movimenti costruttivi e decostruttivi di un personale, quello di Houria, da “rimettere insieme”, da ridonare di ragione del vivere, così come simbolicamente da costruire sarà ed è tuttora, in tanta parte del mondo arabo, la (ri)conquista di ogni libertà femminile. Infine, il perfetto ritmo visivo della pellicola (il montaggio) a firma di Amien Keyeux dona quella non trascurabile voglia di riscatto e sete di libertà da parte dello spettatore che il film trasmette.
Pellicola molto interessante e d’impegno civile: attualissima.
Vito Lopez