“Chiudi gli occhi ed immagina una gioia”.
Molto probabilmente ricorderò il concerto di Niccolò Fabi sulla riva del Lago Grande di Monticchio. Era tutto bello: le montagne boscose e scoscese, il lago blu, le papere bianche che salivano sulla riva in cerca di cibo e di mani piene, il palco basso e scarno: tavole di legno e fili elettrici, le persone all’entrata raccolte alla spicciolata, il bar in uno chalet di legno con le luci colorate appese tra gli alberi, un campeggio degli anni ’80 diventato un posto magico.
Niccolò Fabi è in tour da solo, porta in giro uno spettacolo silenzioso eppure potente: davanti a me c’è un uomo solo con la sua chitarra sulle rive di un vulcano spento tra gli alberi e la gente seduta in silenzio ad ascoltare ogni parola, ogni respiro, ogni accordo; quando siamo vicini si sente tutto, quando si sente tutto si diventa fragili e nella fragilità nasce la bellezza vera. La data di Monticchio fa parte della programmazione del Vulcanica Live Festival, una manifestazione arrivata alla sua XXIV edizione organizzata da una di quelle associazioni di sognatori che provano ad animare un territorio poco abitato e poco conosciuto, il Vulcanica prova ad essere una luce nel bosco fitto dei giorni sempre uguali della provincia italiana.
Fabi sale sul piccolo palco di spalle all’acqua con una chitarra, inizia a cantare e la potenza della sua voce mi investe, inaspettata, di questo cantautore che ha fatto della delicatezza la sua cifra più famosa: ci sono chitarra, voce e il sole che comincia a tramontare. Durante questo concerto ho capito fino in fondo che cos’è la ‘golden hour’: è una manciata di minuti in cui tutto diventa prezioso come l’oro, non è solo una questione di colore, è una questione di armonia della vita.
Il cantautore che scrive e canta di sconfitte, di momenti difficili, di riflessioni profonde è una persona estremamente simpatica però, durante la sua esibizione parla al pubblico ribadendo che – insomma – i suoi concerti non sono proprio il massimo dell’allegria, infatti a metà della scaletta dice “a questo punto il peggio è passato, potete iniziare a rilassarvi”, ma il pubblico, quasi mille persone che sono arrivate in questo angolo selvaggio di Basilicata per lui, non vuole rilassarsi, vuole continuare a cantare sottovoce, a dondolarsi piano sulle sedie, vuole continuare a sentirsi vicino, ad essere un corpo solo, una voce sola che canta, uno sguardo che si chiude e ricorda, una mano sugli occhi.
“Sto per cantare una canzone che non canto da tempo; è la canzone con cui il mio nome ha cominciato ad essere conosciuto ma che purtroppo troppo presto mi ha identificato agli occhi del pubblico. Per molto tempo ho cercato di allontanarmi da lei, come se le cose che avessi scritto dopo di lei avessero più valore, come se le cose cantate dopo di lei avessero un peso maggiore ma oggi, dopo venticinque anni, ho capito che io sono anche questo, che le cose che cantavo all’inizio raccontavano comunque di me, anche se in maniera più ingenua” questa l’introduzione di “Capelli” che ovviamente oggi qui è tutta un’altra cosa cantata così, con la consapevolezza di un adulto e il giusto rispetto che dovremmo avere per tutte le ingenuità che ci hanno permesso di diventare saggi.
E alla fine arriva anche “Lasciarsi un giorno a Roma”, il pubblico lascia le sedie e arriva sotto il palco, è una danza questo saltellare, queste braccia alzate, questi visi giovani e adulti che arrivano sottopalco, è una meraviglia questo concerto, è il filo di un aquilone, è un equilibrio sottile, non è cosa ma è come, è una questione di stile, non è di molti né pochi, ma solo di alcuni, è una conquista, una necessità.
Guascone
Foto di Giovanni Marino