“La Mite” di Dostoevskij riletta da Teatro delle Bambole va oltre la retorica delle scarpe rosse

An odd thing happens when we die, our senses vanish. Taste, touch, smell and sound become a distant memory, but our sight? Ah, our sight expands and we can suddenly see the world we left behind so clearly. Of course most of what’s visible to the dead could also be seen by the living, if they would only take the time to look.
Succede una strana cosa quando moriamo, i nostri sensi svaniscono. Il gusto, il tatto, l’olfatto e l’udito diventano un ricordo lontano, e la vista? Ah, la vista si espande e riusciamo improvvisamente a vedere il mondo che abbiamo lasciato in una maniera così chiara. Naturalmente molto di ciò che è visibile ai morti può essere visto dai vivi, se solo si prendessero il tempo di vederlo.
(Desperate Housewives, s01ep01)

Questa estate ha visto esacerbarsi la violenza contro le donne, soprattutto contro quante tra loro sono più giovani, fragili, in condizione di bisogno. Il mondo della cultura sostiene un dibattito che potrà spegnersi solo il giorno in cui a una donna non sarà più torto un capello perché donna.

La mia esperienza con queste rappresentazioni si è sostanziata in una “Tosca” stellare, all’Arena di Verona: l’ineludibile volo da Castel Sant’Angelo, nel tradizionale costume blu royal (in questo allestimento firmato da Hugo de Ana) ha mostrato una potenza quasi inedita nella suicida.

Non solo: “Poor Things” (Povere Creature!) di Yorgos Lanthimos, Leone d’Oro a Venezia 2023, tratto dall’ononimo romanzo di Alasdair Gray, vede una narrazione che si dipana proprio dal suicidio della protagonista, una storia che lo stesso regista ha ammesso “uscita per una umanità finalmente pronta a capirla”.

Anche Dostoevskij ci ha provato con “La Mite”. Parte di “Diario di uno scrittore”, il racconto, più volte maneggiato dall’autore, in una lunga gestazione, alla fine subirà la maieutica di un fatto di cronaca avvenuto a San Pietroburgo nel 1876.

Il gestore di un banco dei pegni sposa una sedicenne umiliata dalla sua famiglia di origine, impegnandola in un matrimonio senza amore, in una spirale distruttiva che porterà la giovane moglie al più estremo dei gesti.

Questa trasposizione è figlia del “Teatro delle Bambole”, vale a dire la scrittura, scenografia, drammaturgia e regia di Andrea Cramarossa, e il “canto della scena” di Federico Gobbi. Il monologo fa parte della rassegna “2003-2023 | Vent’anni di Teatro delle Bambole” e ha visto come cornice l’Auditorium Diocesano La Vallisa di Bari.

Il richiamo della chiesa sconsacrata, qual è La Vallisa, è in una statua della Madonna col Bambino, un Bambino però decapitato. Nessuna redenzione è possibile per un uomo che ha perso la testa pensando di aver ragione, senza alcuna possibilità di appello. Altri elementi scenici sono un paio di decolleté bianche, evidentemente appartenute a una donna che non c’è più, e due sedie.

Il fattaccio è già successo, delle domande ipotetiche vengono poste al principale indiziato del malessere che ha portato una donna a commettere tale gesto: suo marito. Le due sedie indicano due stati della coscienza, in un conflitto interiore che, come vedremo, non ammetterà mai una vera e propria sintesi: il rimuginare continuo su propri errori eterodeterminati, l’overanalisi di piccoli e grandi momenti del matrimonio, primo tra tutti il viaggio di nozze mai fatto; la tracotanza nel lanciare la colpa sempre e solo altrove, nel ritenere il fallimento del matrimonio un fatto di cui incolpare solo la moglie, un suo pseudoamante e le sue zie cattive.

Nel mezzo, la mitezza della ragazza. Una calma apparente, tradita da un sorriso beffardo e un piedino destro battuto ossessivamente per terra, per nascondere il caos interiore, e la morte giunta in comode rate, prima del volo finale: la morte sociale, l’esclusione dalla vita pubblica e lavorativa; la prostrazione casalinga, emarginata e maltrattata da zie e marito, con un silenzio opponente e punitivo; la fine della ragione al confine con la disperazione, con una rivoltella in mano; l’usura del viso e del fisico, preludio dell’irreparabile. Una storia come tante, che rende benissimo l’inesistenza del raptus e della dimensione dell’improvviso, quando si parla di violenza domestica.

Tutta la storia passa attraverso la forza drammatica di Gobbi, che non si dà pace, con i suoi tic, le sue compulsioni, i suoi scatti di ira, perorando la causa di ammissione di colpa da parte di una morta che non potrà tornare a difendere il suo punto di vista, tanto è vero che la soluzione che il marito trova per i suoi guai è trovare una nuova moglie.

La scrittura scenica di Cramarossa rende benissimo l’oggettivizzazione della donna, da una specie di suppellettile casalinga a un sudario sepolcrale ripieno, fino al simulacro delle scarpe bianche, che fino all’ultimo proveranno a marciare solo col permesso dell’uomo.

Tanti sono ogni anno, a ogni femminicidio, a ogni Giornata internazionale della donna, o a quella per l’eliminazione della violenza sulle donne, gli elenchi delle storie delle donne, cosa facevano, come le vedeva la comunità, un tripudio di scarpe rosse che probabilmente sta offrendo una visione a metà, di tutta la faccenda. Manca tutta la narrazione che innesca la violenza, il codice sorgente che altera il raziocinio e si culla nelle convenzioni sociali, una sverniciatura che ci riporta al candore dogmatico e disgustoso di un mondo inospitale per le donne che lo percorrono.

Possa “La Mite” essere una finestra sul patriarcato, visto dagli uomini come unico mondo possibile, così da riconoscerne i frutti velenosi. Un mondo meno mite può non essere un male. Un mondo più gentile, invece, può darci frutti più giusti.

Beatrice Zippo
Foto dal sito web della Compagnia

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