“Now and then I think of when we were together
Like when you said you felt so happy you could die
Told myself that you were right for me
But felt so lonely in your company
But that was love, and it’s an ache I still remember”
(“Ogni tanto penso a quando stavamo insieme
Come quando hai detto che ti sentivi felice da poter morirne
Mi sono detto che eri quella per me
Ma mi sentivo così solo in tua compagnia
Ma era amore, ed è un malanno che ancora ricordo”)
(“Somebody that I used to know”, Gotye, 2011)
È una strada particolare, a Bari vecchia, quella dedicata a San Gaetano. È un luogo da dove più di vent’anni fa prese le mosse una delle storie più drammatiche della Bari dei nostri giorni, quella della Famiglia Fazio. Nella omonima chiesa riposano i Misteri della Vallisa, che si contendono la processione del Venerdì Santo con quelli di San Gregorio (trovando un compromesso nell’uscire in corteo rispettivamente agli anni pari e agli anni dispari). L’anno scorso, qui è andata in scena “Con le mani così lievi…che sentivo dolore”, la fortunata Pentesilea impersonata da Valentina Bischi, tornata a Bari, stavolta all’Auditorium Diocesano Vallisa, nel precedente weekend. Una produzione Punti Cospicui, di cui abbiamo già scritto.
Non stupisce che un’altra tragedia prenda corpo in questa strada, un’altra storia in cui una guerra – che sia quella di mala, che sia quella contro la Parola di Cristo, che sia quella di Troia – strazia un corpo di donna. Stavolta, è Clitennestra, a scagliare tutta se stessa contro un nemico più pericoloso delle armi, ossia le mani maschili che le brandiscono.
La produzione “Parla, Clitemnestra! Un’eterna tragedia in versi” è della compagnia Barletti/Waas, scritta e interpretata da Lea Barletti, in scena assieme a Gabriele Benedetti, con la regia di Werner Waas, con il sostegno di Florian Metateatro e Consorzio Altre Produzioni Indipendenti e l’ospitalità di Vallisa Culture e con il contributo di Regione Puglia e Comune di Bari. Lo spettacolo è parte della nona edizione del festival “Il Peso della Farfalla”, punta di diamante dell’attività di Punti Cospicui e della sua patrona Clarissa Veronico. Dopo un prologo fatto di letture a Prinz Zaum (tra cui una, quella sul libro “Del potere” di Simone Weil, di cui abbiamo scritto, tenuta dalla stessa Lea Barletti), il festival offre rappresentazioni teatrali incentrate proprio sulla tematica del potere, nell’accezione più radicale di tutte, quella della battaglia tra le due metà del mondo: il genere femminile e il genere maschile.
Ascosa come la chiesa che la ospita è la scena che accoglie il pubblico: il buio ammanta i corpi dei due attori, solo sei piccole torce a luce bianca guidano il percorso verso le scene e la volontà degli spettatori di vedere chi recita, nella sintesi o nel dettaglio: eccoli, Clitennestra e Agamennone, vestiti solo di piccoli sudari bianchi, i corpi imbiancati. Sembrano dei sepolcri umani, ciascuno in preda ai suoi silenzi e alle sue ipocrisie.
Dapprima Clitennestra è restia a parlare dei suoi dolori e delle sue ansie, pur pungolata da Agamennone non proferisce verbi che non siano atti di accusa verso un matrimonio nato dal sangue, continuato nel sangue e terminato nel sangue. Di qui, Clitennestra mette in evidenza tutte le assurdità di quelle che vengono assurte a motivazioni imprescindibili per il conflitto: la natura, che porta al sacrificio nientemeno che una figlia; la ragion di Stato, il dogma che non si capisce quale popolo e le ragioni di chi tuteli, o che razza di Stato permetta che esseri umani muoiano uccisi per diletto, nel silenzio ancora più colpevole di un coro (impersonato dal pubblico) supinato agli eventi.
Agamennone è dapprima soverchiato dal dubbio, tanto che viene spontaneo cercare di puntargli dritta in faccia la torcia, chiedendogli “Perché?”. Ma, poiché il potere non ammette rimorso né rimpianto, almeno all’apparenza, Agamennone cerca di evidenziare tutte le contraddizioni che sottendono una critica del sangue, se a loro volta accompagnate da una visione sanguinaria e chiusa a qualsivoglia perdono.
Qui a Clitennestra si aprono le cateratte. Il buco nero del suo sepolcro attira il dolore di tutte le fasi della sua esistenza, ma poi attrae il dolore delle donne che la circondano, fino a diventare il dolore di tutte le donne del mondo (come non richiamare il monologo di Cynthia Nixon che gira in rete, o quello di America Ferrera in “Barbie”?). Da una presunta natura che ci vorrebbe sofferenti, a un sistema per cui non siamo mai abbastanza, fino a condizionare i nostri corpi in nome del potere, sì, ma soprattutto del capitale e dell’infelicità ad esso legata. Prenderne consapevolezza è il primo passo verso la liberazione. I piccoli arcobaleni disegnati dai raggi di luce bianca sui corpi sembrerebbero armi di pace capaci di fermare la devastazione.
Agamennone non ne può più, e lascia la scena verso un finale inaspettato.
“Il Peso della Farfalla” termina la sua nona edizione venerdì 6 e sabato 7 ottobre presso la chiesa di Santa Teresa dei Maschi (cambio location rispetto al programma) con “P come Penelope” di e con Paola Fresa.
Beatrice Zippo
Foto di Luciano Onza