Della fuga, la cinematografia di Salvatores ci ha addirittura fatto una tetralogia. Di chi resta, invece, non c’è molto, oltre a piccole agiografie che guardano quasi con compassione chi si prende la briga di guardare in faccia la realtà in cui più o meno volontariamente si trova a vivere.
Chi meglio di Penelope è indicata per incarnare questo spirito? Universalmente considerata l’antieroina dell’amore muliebre, la regina di Itaca ha sempre avuto quest’aura claustrofobica nel racconto dell’Odissea. Una vita uguale tutti i giorni: mettersi al telaio al mattino, respingere le pretese dei Proci, vedersi dilapidare il patrimonio reale, rimettersi al telaio alla sera, per disfare il lavoro del giorno.
Paola Fresa prova a darne una lettura alternativa. Da barese che vive fuori, è la testimone ideale di tante Penelopi non rimaste a subire il destino, e lo fa con un monologo, in uno stile che strizza l’occhio alla stand-up femminile italiana di penultima e ultima generazione, ma con una scenografia minimalista, eppure esistente, che allarga il racconto che di Penelope intende fare. “P come Penelope” è scritto oltreché interpretato da lei. Lo spettacolo è una produzione Accademia Perduta – Romagna Teatri, Fondazione TRG di Torino, in collaborazione con Christian Di Domenico, la supervisione registica di Emiliano Bronzino, le scene e i costumi di Federica Parolini, le luci di Paolo Casati e l’assistente alla regia Ornella Matranga.
Si chiude così il cartellone della nona edizione del festival “Il peso della farfalla”, animato da Punti Cospicui nella figura di Clarissa Veronico, con il contributo di Regione Puglia e Comune di Bari, e il supporto di Vallisa Cultura. La cornice è quella di Santa Teresa dei Maschi, tra le poche chiese barocche di Bari vecchia, da dove i Misteri della Vallisa, che riposano a San Gaetano, come abbiamo visto, vedono la luce nei venerdì santi degli anni pari. Nella loro attesa, qui dimora Bibart, la biennale d’arte contemporanea barese.
Cosa sappiamo della Penelope bambina e ragazza? Fresa prova a ipotizzarla introversa, oppressa dalle aspettative e dalla sindrome dell’impostore inculcata dai genitori, in contrapposizione con la cugina Elena, proprio lei, la principessa che scatenerà la guerra, la Barbie Stereotipo, immaginata in scena proprio come una Barbie, in un richiamo molto marcato all’iconografia della bambola che stiamo vivendo in queste settimane al cinema e nel costume in generale.
La sua paura dell’acqua si trasformerà in paura della vita, legandola alla paura di affrontare il mare dell’esistenza e rendendola più isola dell’isola di Itaca.
Cosa sappiamo della Penelope madre? Di sicuro una madre paziente, di un figlio che non saprà resistere alla ricerca di suo padre al di là dell’ignoto e del mare, in un esercizio di ingratitudine che resiste all’usura dei millenni. Nel poema omerico Penelope esiste principalmente negli occhi colmi di cupidigia dei Proci. In questo monologo, gli altri uomini non sono viscidi pretendenti alla mano della regina, ma restano viscidi. Viscidi, prepotenti, tracotanti, competitivi, con l’unico scopo di emergere, assieme ai propri figli, nel contesto competitivo per eccellenza delle famiglie degli italiani medi: la scuola di calcio. Qui non risparmiano parolacce, insulti, all’indirizzo di Penelope e di suo figlio, colpevoli di essere delle isole.
Cosa sappiamo della Penelope donna? Ha dei desideri, ha voglia di liberarsi di questo stato di cose? A quanto dice, la Penelope di Paola Fresa vuole solo tornare al mare, far pace con esso, e con ciò liberarsi dall’incantesimo di desolazione che proprio il mare le ha inferto, un tuffo verso un nuovo destino, dal momento che quello per cui sembrava nata sembra non tornare più.
“Ma che mare, ma che mare
Meglio soli su una nave
Per non sentire il peso delle aspettative
Travolti dall’immensità del blu”
(Colapesce e Di Martino “Splash”, 2023)
Beatrice Zippo
Foto dalla pagina Facebook de Il peso della farfalla