“Quando danziamo fino all’alba, la luna ha pietà di noi.” (Canto indiano)
“Danzare vuol dire soprattutto comunicare, unirsi, incontrarsi, parlare con l’altro dalla profondità del proprio essere. La danza è un perpetuo diario intimo di emozioni provvisorie, una poesia in cui ogni parola è un movimento: il mio vocabolario è quello del corpo, la mia grammatica è quella della danza, la mia carta è il tappeto di scena. Danza è unione: da persona a persona, da persona all’universo, da persona a Dio.” (Maurice Béjart)
Sono ormai sedici anni che Maurice Béjart ci ha lasciati, eppure non esiste al mondo chi possa affermare che la sua Arte coreografica, pregna di quella magnifica mistura che – come lui stesso amava dire – è composta da “un minimo di spiegazione, un minimo di aneddoti e un massimo di sensazioni”, non sia ancora fonte di emozioni possenti, insopprimibili, indelebili. Dopo esserne stato insuperabile pioniere, Béjart è ancora oggi il re incontrastato, il dominatore assoluto di quel concetto dionisiaco che fece della danza non solo un’espressione di gioia, ma anche il risultato di una profonda analisi della realtà contemporanea, di una ricerca – anche introspettiva – in divenire che guardava con attenzione alle trasformazioni sociali e all’evoluzione cosmopolita culturale, affrontando temi sino a quel momento considerati dei veri tabù, quali la contestazione giovanile e delle minoranze, il pacifismo e l’emancipazione della donna, così da approfondire ed affinare le sue idee coreografiche fino a creare uno stile personale di teatro totale, in cui i diversi linguaggi si relazionavano senza gerarchie, che risultò immediatamente immune dalle vecchie stilizzazioni del balletto classico ma anche da quelle della modern dance.
Oggi, grazie alla meritoria opera del Béjart Ballet Lausanne e del suo direttore artistico Gil Roman, che per lungo tempo fu sodale alter ego del Maestro, i più grandi teatri possono continuare a godere di quella magia, così come è accaduto all’osannante platea, colma sino all’inverosimile in ogni ordine di posto, della Stagione di Opera e Balletto 2023 della Fondazione del Teatro Petruzzelli, deliziata da tre coreografie assolutamente meravigliose, che non solo possono ben essere considerate la summa del Béjart-pensiero, perfettamente rappresentando – pur dovendosi a Roman la paternità della prima delle tre – l’intera evoluzione dello stile di Maurice, ma anche probabilmente uno dei migliori programmi mai realizzati dall’Ensemble, scevro da gabbie accademiche, da imposizioni narrative e da mimesi didascaliche, con la danza che si fa perenne ricerca di un gesto poetico ed incorporeo che estrinsechi un pensiero interiore, consapevole, spirituale, puro.
“In questo periodo travagliato, in cui abbiamo desiderato la leggerezza, ho composto una serie di coreografie, articolate attorno alla tecnica classica, che non hanno altro soggetto che il piacere della danza”: così ha presentato Roman la sua creatura “Alors on danse… !”, una serie di pas de deux, de trois, de cinq che giungono ad un memorabile ensemble finale, ideata su musiche di György Ligeti, John Zorn, Citypercussion e Bob Dylan, una assorta, onirica, magnifica dichiarazione d’amore nei confronti della vita e del suo mentore, in cui il gesto si fa disvelamento di un pensiero, di un’attitudine, di un sentimento, di un concetto o, meglio, di una concezione, sino a divenire linfa e nutrimento di un’emozione talmente potente da travolgere qualunque anima trovi sul suo cammino, che conquista come solo la bellezza incontaminata sa fare, una coreografia che – non vi è dubbio – saprà assurgere alla popolarità delle due celeberrime ed inarrivabili opere d’arte di Béjart che completavano il trittico, vale a dire “L’uccello di fuoco” e il mitico “Boléro”.
Bèjart si basò sulla terza e definitiva partitura per suite orchestrale, quella datata 1945, de “L’Oiseau de feu” di Igor Stravinskij per dare vita, attraverso una danza astratta che si collocava al confine tra la nuova creatività e l’antica tradizione, ad un personaggio di pura luce ed energia, rivoluzionario ed eversivo – come fu il compositore russo – nei confronti delle stesse leggi del Creato, che, rinascendo dalle sue ceneri come la fenice, diviene simbolo della capacità della vita di risorgere a se stessa, di divenire immortale, indefinita, infinita; nella serata del Petruzzelli, Hideo Kishimoto ha raccolto il testimone del ruolo principale che inizialmente fu di Michaël Denard, donandosi al pubblico in una visibilmente erculea fatica che ci restituiva una fisicità gestuale che rapiva e conquistava.
Poi l’attesissimo “Boléro”, l’ipnotico quanto suggestivo crescendo musicale famoso in tutto il mondo nato dalla penna di Maurice Ravel ed ormai associato, nell’immaginario collettivo, indissolubilmente alla sublime coreografia creata dal Maestro belga nel lontano 1961, considerata, a ragion veduta, il capolavoro dei capolavori, con la tavola rotonda rossa, ormai leggendaria al pari di quella di Re Artù, su cui si agita la star dell’opera, che sembra contenere tutta la passione, l’emozione, l’intensità, il lirismo, la poesia, il pathos e l’eros dell’universo. Nella serata barese, poi, è stata palpabile l’entusiasmante sorpresa del pubblico quando, a poco a poco, si è scoperta la figura dell’etoile Julien Favreau nel ruolo del protagonista, meraviglioso interprete che ricordava in modo impressionante la statuaria figura dell’amato Jorge Donn, l’indimenticato interprete della pièce perennemente immortalato mentre danza ai piedi della Torre Eiffel nella magnifica opera cinematografica del 1981 di Claude Lelouch “Les uns et les autres” (che, nella traduzione italiana, diventò, appunto, “Bolero”); Julien ha saputo donare all’epica pagina bèjartiana l’originario vigore grazie ad una danza fluida, intrigante, coinvolgente, trascinante, che appagava ancora una volta tutti i sensi dei cuori danzanti assiepati in teatro sino al tripudio finale.
Ma – occorre dirlo – sono stati sublimi tutti i danzatori impegnati sul palco, sospinti, nel loro inarrestabile flusso vitale, solo dalla continua quanto impertinente sfida alle universali leggi della natura, prima fra tutte quella di gravità, perseguendo con ogni mezzo l’idea di grazia, di bellezza, di perfezione sublimata dalla loro guida spirituale. Ecco, la danza di Maurice Bèjart, per noi, è quell’idea, e, pertanto, non potrà mai smettere di conquistarci, perché le idee, come è noto, non possono morire. Mai.
Pasquale Attolico
Foto dal sito web della Compagnia