Parte benissimo l’edizione numero 44 della Stagione concertistica dell’Associazione Amici della musica di Monopoli, approntata dal Presidente avv. Michele Fanizzi, dal Presidente emerito prof. Angelo Giangrande e dal Direttore artistico Giovanni Antonioni.
Insieme a Paolo Fresu alla tromba e al flicorno, sono saliti sul palco del Teatro Radar, anche Daniele Di Bonaventura al bandoneon (suo compagno di scena ormai da decenni), con l’aggiunta di Marco Bardoscia al contrabbasso e Dino Rubino alla tromba. Il progetto presentato a Monopoli è dedicato a Lawrence Ferlinghetti in occasione del centenario della sua nascita. E’ stato concepito come colonna sonora di un docufilm “The Beat Bomb” di Ferdinando Vicentini Orgnani che racconta la meravigliosa storia di Ferlinghetti.
Anche se il nome del regista risulta essere sconosciuto ai più (io sono tra loro), la collaborazione tra Paolo Fresu e Ferdinando Vicentini Organi nasce già nel 2002, con un altro docufilm: “Ilaria Alpi – Il più crudele dei giorni” e proseguita con numerose opere, tra cui “Vinodentro”, del 2013, le cui colonna sonora è diventata un disco uscito nel 2014.
Le musiche di questo progetto sono state scritte durante il periodo della pandemia e solo successivamente, il 7 ottobre 2022, è stato pubblicate l’album dal titolo “Ferlinghetti”.
Per meglio comprendere il significato del concerto, è bene spendere due parole su quella che è stata la figura di Ferlinghetti. Poeta, pittore, e attivista, nel 1953 ha fondato la leggendaria libreria City Lights a San Francisco, che, grazie ai suoi rapporti di stretta amicizia con molte delle figure di spicco della Beat Generation, tra cui Allen Ginsberg, Gregory Corso e Jack Kerouac, ben presto divenne anche la casa editrice di riferimento del movimento.
Partendo dalle celebrazioni per la ricorrenza dei 100 anni di Lawrence Ferlinghetti (quando era ancora in vita, visto che è morto a 101 anni) questo film intende ripercorrere la straordinaria avventura della sua vita, un viaggio iniziato nel 2007 con la casualità di un incontro tra il regista e il grande poeta. Poteva finire lì, ma invece, per una serie di situazioni, tra i due è nata una collaborazione e un’amicizia che è andata avanti, tra Roma e San Francisco, fino alla fine della sua lunga vita (1919 – 2021). Oltre a essere stato il catalizzatore, il talent scout e l’editore della Beat Generation, Ferlinghetti ha portato avanti una sua visione, un progetto politico e culturale rigoroso, coerente. Questo documentario vuole tentare di essere anche una eco della sua voce: THE BEAT BOMB, una bomba contro “the Military Industrial Complex”, quella potentissima lobby che anche il presidente Eisenhower (da ex generale) in un suo storico discorso, aveva tentato invano di contrastare. In una sua poesia Lawrence auspica che con il potere delle parole i poeti possano essere “reporter dello spazio” per rispondere alla sfida di questi tempi apocalittici (sembrano parole scritte oggi).
La madre era di origini francesi e portoghesi. Il padre, Carlo Ferlinghetti, era nato a Brescia ed era emigrato negli Stati Uniti d’America nel 1894. Morì sei mesi prima della nascita di Lawrence. Poco dopo la madre fu ricoverata in manicomio e Lawrence venne affidato alla zia Emily, con la quale visse i suoi primi cinque anni a Strasburgo, acquisendo quindi il francese come lingua madre. Quando la zia fu assunta come governante a New York, i suoi datori di lavoro, la famiglia Bislands, adottarono Lawrence consentendogli di studiare giornalismo. Fu al momento dell’arruolamento nella marina militare statunitense durante la seconda guerra mondiale, quando fu necessario esibire il certificato di nascita, che scoprì che il padre aveva cambiato l’originale cognome italiano in Ferlings. Solo a partire dal 1955, in occasione della pubblicazione della sua prima raccolta di poesia, Pictures of the Gone World, ha iniziato ad usare l’originale cognome Ferlinghetti. Dopo la guerra conseguì un diploma postlaurea alla Columbia University e un dottorato alla Sorbona. Tra il 1951 e il 1953 insegnò francese, fu critico letterario, dipinse e infine, nel 1953, si stabilì a San Francisco, dove fondò la libreria e casa editrice City Lights.
Tra i tanti scritti dei poeti della Beat Generation, quello che più di tutti creò non pochi problemi fu il poema “Howl” (L’Urlo) di Allen Ginsberg, Un poema scritto circa 70 anni fa, ma attualissimo come denuncia e rifiuto della guerra. Per la cronaca, la prima lettura pubblica del poema è del 1955. Solo nell’autunno del 1956 l’editore Ferlinghetti pubblicò il poema insieme ad altri scritti, e questo gli procurò, nel 1957, un mandato di cattura per istigazione ad oscenità. Solo un lungo processo restituì dignità al poema, riabilitando l’editore.
Per portare in musica questa storia per alcuni versi complicata, Paolo Fresu ha riunito due delle sue tante formazioni: quella in duo, più longeva, con Daniele di Bonaventura, e quella più recente ma non per questo priva di spessore, con Dino Rubino e Marco Bardoscia (già nel 2018 avevano pubblicato il disco “Tempo di Chet”, dedicato a Chet Backer). Lo scorso anno il gruppo (senza Fresu, a nome di Dino Rubino) è stato presente in diverse manifestazioni, prima tra tutte quella di Umbria Jazz.
Paolo Fresu (classe 1962, ha iniziato a studiare la tromba a undici anni, mentre suonava nella banda del paese. Da allora la sua vita artistica ha raggiunto un successo vertiginoso, registrando più di centoventi album, si è esibito in tutti i principali festival italiani ed internazionali, ha insegnato musica, vinto svariati riconoscimenti. Ideatore, nel suo paese (Berchidda) di un prestigioso jazz festival.
Dino Rubino nasce nel 1980 a Biancavilla in Sicilia e già a due anni dimostra interesse per la musica. Nel 1991 entra al Conservatorio di Catania e studia pianoforte fino a quando nel 1994, dopo aver assistito ad un concerto di Tom Harrell, decide di lasciare il piano e incominciare lo studio della tromba e del jazz. In modo intermittente è passato dal piano alla tromba, per ritornare al piano. Ma a prescindere dallo strumento, ha sempre mostrato grande padronanza dello strumento.
Nato a Fermo (nelle Marche), Daniele Di Bonaventura, compositore, arrangiatore, pianista, bandoneonista, ha coltivato sin dall’inizio della sua attività un forte interesse per la musica improvvisata pur avendo una formazione musicale di estrazione classica (diploma in Composizione) iniziata a soli 8 anni con lo studio del pianoforte, del violoncello, della composizione e della direzione d’orchestra. Le sue collaborazioni spaziano dalla musica classica a quella contemporanea, dal jazz al tango, dalla musica etnica alla world music, con incursioni nel mondo del teatro del cinema e della danza.
Marco Bardoscia, (Galatina 1982) è diplomato in contrabbasso classico al conservatorio “Tito Schipa” di Lecce e in musica Jazz presso il conservatorio “N. Rota” di Monopoli. La sua attitudine è multiforme così come le sue collaborazioni. Negli anni ha approfondito il legame con la sua terra, il Salento (Puglia), collaborando con tutti i maggiori esponenti della scena tradizionale e lavorando sul repertorio musicale e rimescolandolo con il suo personale linguaggio. Ha vissuto per sette anni a Bruxelles dove è entrato in contatto con la scena musicale belga.
Il risultato di questa unione tra pari (troppo riduttivo definire gli altri musicisti dei semplici accompagnatori) ha portato a diversificare il filo conduttore del messaggio musicale, passando da momenti di estrema liricità a momenti direi quasi spettacolari, in particolare con il brano “Obscene boudaries”, dove Fresu e Bardoscia hanno dato avvio ad una vera e propria battaglia di muscoli, supportata da effetti elettronici e luci psichedeliche che hanno di fatto arricchito uno dei momenti più particolari ( ma non è stato l’unico).
La scaletta del concerto è iniziata con il brano “I was a boy”, composto da Paolo Fresu, per passare al brano “Ferilinghetti” e quindi a “The macaronis scene”, composta da Di Bonaventura. E non è mancato un extra, non presente su disco, di un brano composto da Marco Bardoscia ed eseguito in duo da Dino Rubino e Daniele di Bonaventura.
Un ruolo fondamentale, nell’equilibrio del gruppo, lo ha svolto Dino Rubino, il cui pianoforte dalla sonorità calda e avvolgente è stato al centro di molti momenti del concerto, in particolare dell’ispirata ballad “I Am the Man”, di sua composizione.
I titoli dei 13 brani originali dell’album sono stati ispirati dalla poesia Autobiography di Ferlinghetti e da altri testi che compongono il corpus letterario dell’intellettuale italo-americano, e sono stati registrati pochi mesi prima della sua scomparsa (avvenuta a febbraio 2021, causa Covid)
Ritmi incessanti, a volte poetici, a volte trascinanti, talvolta melodiosi. La metà dei brani dell’album è stata composta da Paolo Fresu e l’altra metà dai suoi compagni di viaggio. Un concerto sempre avvincente, che ha tenuto il pubblico sulle corde per tutta la sua durata (quasi due ore). Avevamo già avuto modo di ascoltare Fresu poco più di un mese fa a Noicattaro, con Omar Sosa, ma ascoltarlo a così poca distanza di tempo, in un contesto così diverso non ha potuto che far piacere a tutti, facendoci apprezzare la sua poliedricità e la sua grande capacità espressiva, come musicista ma soprattutto come compositore.
La cosa che ci tengo a sottolineare è che ogni volta che si parla di persone o cose schierate contro la guerra e contro l’industria bellica, abbiamo nuovi scenari di guerra da raccontare. Sono passati 70 anni dalla pubblicazione del poema “The Bomb” e sembra che nulla (veramente nulla) sia cambiato. Siamo in molti però a ripudiare la guerra e ad affermare “Not in my name”.
Un vero grazie all’Associazione Amici della musica di Monopoli per l’interessante cartellone che ci aspetta.
Gaetano de Gennaro
Foto di Gaetano de Gennaro
Bravo come sempre Gaetano ad entrare nel particolare musicale dove in questo caso le radici traggono spunto dalla poesia.