“My, my oh the feelin’ of the sound
Precious and real and oh that’s nice
Whip up some steamin’ jazz
The pot is on the stove it’s cookin’
Want some more we always save some
Art nouveau for special patrons
You look nice do you believe in jazz?”
Davvero ho pensato di vivere un sogno, anzi la realizzazione di un sogno.
Nel Teatro Fusco di Taranto, noto per la sua acustica eccellente, ero davvero al cospetto dei più autorevoli eredi dello stile “vocalese” (quello stile di canto jazz dove gli assoli vengono riprodotti dalla voce con versi appositamente scritti), i Manhattan Transfert per la tappa pugliese del loro tour mondiale, fortemente voluta dal direttore artistico della Stagione musicale tarantina, Michelangelo Busco.
I quattro grandi artisti, fin dai primi istanti, ci hanno accolto con una atmosfera gioiosa, salutandoci in italiano, trasformando il teatro in una sala da concerto dove ogni spettatore si sentiva parte integrante dello spettacolo. Ovviamente è stata una esplosione di emozioni, una dietro l’altra, e forse solo al primo bis ho compreso quanto tutto fosse reale, alle prime note di Soul food to go, stupenda creazione di Djavan che conosce anche una versione della nostra Loredana Berté, uno dei brani che è ai primi posti della mia personalissima playlist assoluta.
Sono passati 50 anni da quando Tim Hauser chiamò accanto a sé Janis Siegel, Alan Paul e Cheryl Bentyne (quest’ultima, invero, entrata nel gruppo solo dal 1979 per rimpiazzare Laurel Massé) per creare un ensemble che riprendesse il repertorio della grande tradizione jazz (e non solo) sostituendo le parti strumentali con le evoluzioni vocali di quattro ugole d’oro.
Ora il grande Tim non c’è più, ma sono certa che sorride nell’ascoltare i tre allegri e pimpanti suoi ex compagni cantare insieme a Trist Curless nel ruolo di basso e baritono che fu il suo.
I Manhattan nella tappa pugliese hanno dato vita ad un viaggio di 50 anni di musica, tra nostalgia e modernità, una serata di doo-wop, jazz, pop e swing dei ruggenti anni ’20 di New York e Chicago, con un avvio scoppiettante e un tributo commovente ad Hauser. Si è capito subito che sarebbe stata una serata memorabile, sin dall’ingresso dei fantastici quattro che hanno dato immediatamente fuoco alle polveri attaccando con la meravigliosa Birdland, rubata all’incommensurabile grandezza dei Weather Report ed ora divenuta la loro bandiera; e il miracolo si è di nuovo compiuto, il meccanismo perfetto che permette ai suoi quattro ingranaggi d’oro di incastrarsi alla perfezione si è messo in movimento: così si è creata un’atmosfera intima e carica di emozioni, le note vibranti e l’armonia impeccabile hanno subito conquistato il cuore degli spettatori, con i quattro che si producevano nei vocalismi più difficili, eseguendo le note scritte su di un immaginario pentagramma da un compositore pazzo e sadico, intraprendendo i voli che avrebbero terrorizzato anche l’Icaro più temerario, con discese ardite e risalite (per dirla con Battisti & Mogol) che sono sembrate esercizi puri e semplici, futili divertissement, presentati con il solito brio (non hanno ancora perso la voglia di realizzare delle piccole coreografie di contorno) e l’incomparabile gusto, accompagnati da una grandissima band di supporto.
La bravura vocale dei Manhattan Transfer è paragonabile a un viaggio attraverso gli stili musicali, scavalcando le barriere dei generi musicali, coniugando magistralmente jazz, pop, r&b, r&r, swing, classica e musica a cappella e tanto altro, dando nuova forza, contemporaneità e, soprattutto, rinnovando la tradizione.
Maurizia Limongelli
Foto dal web