Il mio ricordo legato alla lettura de “La Ferocia” di Nicola Lagioia è quello di una serata memorabile. Ero a letto, in compagnia del romanzo, promettendomi di arrivare alla fine del capitoletto, confidando di addormentarmi nel vuoto di cinque centimetri che separava i grafemi dal fondo pagina. Le ultime parole erano queste:
“L’immagine accanto al nome mostrava una ragazza presa nuda di spalle. Contemplò esterrefatto l’icona appena nata. Poi ci cliccò sopra. Contò zero follower, zero following, un solo tweet. Trattenne il fiato e lesse.
“Non mi sono suicidata””
Il libro, chiuso di soppiatto al lato del cuscino, aveva schiacciato l’ombra del sonno. Gli occhi sbarrati, con un riflesso incondizionato mi sono messa a sedere al bordo del letto, quasi decisa ad andare a vedere cosa fosse successo per davvero alla povera Clara Salvemini.
È stato un rito personale e intimo, che sognavo già fosse collettivo. Per questo, quando è stato annunciato lo spettacolo, sapevo che ci sarei stata.
La messa in scena di questa passione mai sopita in dieci anni di vita, è della compagnia terlizzese VicoQuartoMazzini di Michele Altamura e Gabriele Paolocà, che curano la regia e rientrano nel cast, assieme a Roberto Alinghieri, Leonardo Capuano, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza e Andrea Volpetti. L’adattamento è di Linda Dalisi, la scenografia di Daniele Spanò, le luci di Giulia Pastore, le musiche di Pino Basile, i costumi di Lilian Indraccolo.
Lo spettacolo, dopo un debutto trionfale al Romaeuropa Festival, fa parte del cartellone “Bagliori 2023/2024” del Teatro Kismet a cura di Teresa Ludovico.
La scenografia è quella di una delle tante ville contemporanee, linee squadrate, vetrate panoramiche, opere d’arte incomprese e déhors dove la noia sembra regnare sovrana sotto un architrave che protegge il bene e soprattutto il male di cui è testimone. Una reference estetica è quella di “Parasite”, con la differenza che laddove nel capolavoro coreano la frontiera del sopportabile punta al basso della miseria umana, la villa dei Salvemini si indicizza al difetto, che ripetuto è vizio, che ripetuto è delitto.
Qui si svolge la storia famigliare, il patriarca costruttore, cui non basterà un impero su cui il Sole tramonta una sola ora al giorno e una cravatta a togliere il mindset della canottiera sudata; il genero bellimbusto, disposto a sacrificare il dignitoso per il dignitario; un amico sottosegretario che quelli bravi definirebbero “avvicinabile”; due figli maschi, uno ha strappato la vita lungo i bordi, all’altro i bordi non sono mai stati neppure concessi, i due filamenti dell’elica dello stesso DNA, le due scarpe diverse dello stesso paio.
Un medico allucinato e un giornalista impegnato costituiscono gli unici due legami con il mondo.
E la componente femminile? Essa si fonda sull’assenza. Manca l’altra figlia Gioia, presente nel romanzo. Manca Clara, descritta, palpata nell’aere, vilipesa pure da morta, una Susanna irredenta dai vecchioni che la condannano pur avendo abusato della sua dorata disperazione. Il pallino resta in mano alla madre Annamaria, con una sottile forza di sopportazione che la rende la bestia più feroce di tutte: si sa, la cattività e la cattiveria possiedono la medesima radice.
Proprio l’etologia, che scritta da Lagioia appassiona la lettrice e il lettore alla fiaba di pece della famiglia Salvemini, viene trascinata nella drammaturgia e nella regia, diventandone la spiritualità animista, laddove l’umanità un’anima non ce l’ha più. Dal sottobosco paraurbano di topi di fogna e gatte addomesticate solo all’apparenza, a un’entomologia pronta a entrare in azione ricusando e rimbalzando l’accusa di creature schifose agli umani, ai pivieri e ai fenicotteri, creature alate del Gargano.
All’ombra del Gargano si consumerà lo scandalo, personale e ambientale, della vicenda. Le canne di palude salinare, ascose allo sguardo della gente all’inizio della narrazione, avanzano sempre più, inghiottendo i personaggi e le loro sorti.
Il libro, come lo spettacolo, quando è bello davvero, apre un conflitto irrisolvibile agli occhi dello spettatore della vicenda, perché non vede l’ora di capire come va a finire e assieme non vorrebbe finisse mai. Nel caso de “La Ferocia”, ciò sortisce una consapevolezza: le bestie raccontate nel suo mondo non finiscono mai.
Beatrice Zippo
Foto dalla pagina web della Compagnia