Nella lotta per la sopravvivenza non è semplice distinguere le vittime dai carnefici e gli oppressori dagli oppressi: tra dinamiche di potere e denuncia del patriarcato, convince e fa riflettere “L’ultimo animale”, la pièce scritta, diretta ed interpretata da Caterina Filograno andata in scena al Teatro Kismet di Bari

Al Teatro Kismet di Bari è andato in scena “L’ultimo animale”, produzione Elsinor, nata dalla penna e dalla regia di Caterina Filograno, allestimento di un suo testo, scritto qualche anno fa e successivamente riadattato dall’attrice barese.

La prima cosa che colpisce è il cast, interamente femminile, scelta non casuale, bensì voluta dall’autrice che si dice, da un lato, fortemente attratta dalla “complessità femminile” sul palcoscenico e, dall’altra, si propone di ritagliare per le donne uno spazio che ancora nel teatro, perlomeno italiano, appare angusto, non tanto nei ruoli di attrici, quanto in quello di sceneggiatrici e soprattutto registe, essendo ancora queste figure quasi interamente appannaggio maschile. Ed ecco che la Filograno, attrice giovane anagraficamente ma non altrettanto professionalmente, diviene qui colei che concepisce, crea e dirige le sue attrici e se stessa, riuscendo a dismettere i panni di quella figura ancillare rispetto al regista, spesso uomo, a cui siamo abituati.

E possiamo dire sicuramente che l’intento sia perfettamente riuscito.

Ci accomodiamo in teatro, cercando i nostri posti a sedere, ma ci rendiamo subito conto che lo spettacolo è forse già cominciato senza di noi (le cinque attrici si agitano sul palco in movenze asimmetriche, del tutto scoordinate e dissonanti tra loro, al ritmo di una musichetta che pare provenire da uno di quei video su Youtube che ti insegnano a fare ginnastica a ritmo di musica).

Siamo in ritardo?! No, perché evidentemente questo entrare a storia già iniziata, è un artificio voluto e lo capiremo meglio a fine spettacolo, quando ci renderemo conto che non saremo congedati con chiusure di sipari o abbassamento delle luci ed inchini delle attrici, ma resteremo lì, per qualche frazione di minuto a chiederci cosa dobbiamo fare, perché il momento della chiusura, in fondo, lo decideremo noi. Inizio e fine sono solo delle convenzioni, sembra volerci dire l’autrice, insomma “spettatori, mettetevi scomodi”. E infatti, noi siamo fisicamente fuori, ma anche dentro la storia, sebbene possa non piacerci riconoscerci in certe dinamiche. Ci saranno scene inaspettate, in cui ci sentiremo attraversare da un brivido e non certo di piacere.

E sì, perché al di là dei costumi pop dei personaggi, di alcune uscite volutamente un po’ demenziali che fanno persino sbellicare il pubblico in risate scomposte, capiremo ben presto quanto questa leggerezza, in realtà, sia solo un codice narrativo che permette all’autrice di affrontare tematiche scomode, al punto di provocarci turbamento. Il tutto servendosi di un cast davvero eccellente e di grande potenza espressiva.

La storia racconta di Cristi, interpretata dalla stessa Filograno, una giovane donna che vive a casa della sua amica Giudi. Le due hanno prospettive antitetiche sul cibo e sul corpo. Hanno entrambe le loro ossessioni: la prima il fitness, la perfezione estetica del corpo che le fa vivere il cibo in termini di rifiuto e di pericolo, la seconda le ricette americane not-so-healty che segue sul web, con dedizione quasi maniacale.

E’ una storia calata appieno nel suo tempo, poiché sia Cristi che Giudi vivono di social (i famosi tutorial, utilizzati dalla prima per seguire gli allenamenti, dalla seconda per imparare compulsivamente nuove ricette e poi allestirne di improbabili lei stessa).

Ci diverte, e allo stesso tempo ci fa riflettere, il tutorial registrato da Giudi sulla preparazione dei cupcakes, in cui pian piano, dal descrivere una ricetta, tra ingredienti e tempi di cottura, gradualmente scantona ad allargarsi su assurdi giudizi umani circa le inadeguatezze psicologiche e caratteriali di coloro che non sarebbero in grado di eseguire la ricetta perfettamente, chiaro riferimento ad improbabili “life-coach” di cui il web ormai pullula, in forma di insegnanti di ginnastica, cuochi, stilisti, truccatrici e chi più ne ha più ne metta.

In questa storia, l’elemento fiabesco e surreale è rappresentato da un buco all’interno di un muro della casa, di cui, però, Giudi ignora l’esistenza, in cui vivono tre animali: due procioni di nome Proc e Chino e un bruco in attesa di trasformarsi in farfalla, di nome Bruka. Sono creature parlanti che vivono esclusivamente poiché dipendenti da Cristi che porta loro il cibo e che sognano di fuggire nel bosco, dove potrebbero essere liberi e felici.

Il rapporto che Cristi sembra instaurare con loro è, però, di tipo manipolativo, poiché li tiene legati alla promessa di liberarli nel bosco, che non sarà mai mantenuta, e di totale dipendenza poiché lei è la sola che possa portar loro il cibo necessario per la sopravvivenza.

Ancora una volta, il cibo rappresenta il perno su cui ruotano tutti i rapporti tra i personaggi. Cibo agognato da chi ne ha bisogno e cibo rifiutato poiché capace di allontanare da quell’ideale di bellezza che la nostra cultura, in modo martellante, ci impone, cibo adorato nelle sue forme più colorate e attraenti ma velenose poiché evidentemente poco sano.

Ma perché una storia di procioni, bruchi e amiche dai discorsi superficiali dovrebbe trasmetterci qualcosa?
Perché ognuno di quei personaggi così apparentemente naϊf, in realtà, è legato inesorabilmente agli atri e da essi ne dipende. Perché questa pièce è una storia amara e anche triste, perché è la storia di come dietro una amicizia possano celarsi, più o meno velatamente, invidie e giochi di potere, ricatti psicologici e terribili vendette.

Cristi, nel culto narcisistico del suo corpo, diventa invidiosa di Giudi quando quest’ultima comincia a frequentare un ragazzo e le fornisce i consigli migliori per poter essere lasciata, ma nonostante tutto, la storia d’amore tra i due fidanzati resiste, fino al punto di decidere per una convivenza. Per coronare il suo sogno di coppia, Giudi non si crea molti problemi ad avvisare l’amica che dovrà cercarsi un’altra collocazione.

Intanto, gli animali vivacchiano trascurati, uscendo di tanto in tanto dal buco, tra la diffidenza rabbiosa di Proc, personalità dominante tra i tre, che fomenta i suoi compagni contro la loro “benefattrice” (?) che dimentica di nutrirli per giorni, i lamenti incomprensibili e talvolta divertenti di Chino, figura gregaria, ma come scopriremo, non meno egoista e pericolosa, ed infine le supposizioni speranzose dell’unico personaggio ingenuo e realmente pulito di tutta la storia, Bruka, che crederà fino all’ultimo, al valore di quella promessa di libertà e che, in nome dell’amicizia del “o tutti o nessuno”, deciderà di non volare via da sola, quando le spuntano le ali, verso il bosco dei suoi sogni, pagandone poi, amaramente il prezzo.

In questa ottica, abbiamo quasi la sensazione che vi sia un sovvertimento dei ruoli, tanto da rendere quasi più caratterizzati gli animali rispetto agli umani (riconoscenza, rabbia, speranza, risentimento li ritroviamo nei tre animaletti nel corso della storia); le due umane, invece, intessono tra loro dialoghi più superficiali, come se parlassero con il linguaggio a slogan dei social (di Youtube, di WhattsApp, di Facebook e di Instagram) e ,infatti, colpiscono lo spettatore i monologhi rappati di Cristi, del cui cinismo spaventoso seguiamo il ritmo cadenzato.

Questa storia, che è tutto fuorchè una storiella, davvero si presta a numerosi livelli di lettura: imperniata su una dinamica di hobbesiana memoria, dapprima subdola, fino a diventare manifestatamente truculenta, a ricordarci che non c’è amicizia o moralità al mondo che possa vincere sull’“homo homini lupus”, diviene l’emblema di una lotta per la sopravvivenza o se si vuole, per il potere, in cui non è più semplice distinguere le vittime dai carnefici, gli oppressori dagli oppressi, gli animali dagli umani, poiché i ruoli tutti possono inaspettatamente diventare interscambiabili. E qui i riferimenti sono tanti, da quelli orwelliani de “La fattoria degli animali”, a “Il signore delle mosche” di Golding, ai ciechi disperati e incattiviti di “Cecità” di Saramago. E l’elenco potrebbe continuare.

Il nostro fine, però, non è quello di trovare riferimenti letterari a cui forse l’autrice si sia ispirata o forse no (è davvero importante?), quanto sottolineare come la giovane Filograno abbia saputo, con l’apparente leggerezza di cui solo le donne sono capaci quando vogliono, disvelare gli aspetti meno edificanti e dunque proprio quelli di cui ci vergogniamo, mai ammettendo che siano anche i nostri, del nostro essere “umani”, avendo la capacità di sfiorare, con abilità, le nuove trappole psicologiche che l’era dei social ci impongono, dietro una patina dorata e allettante, ma solo in apparenza.

Ed infine, all’autrice va anche il merito dell’intento “politico”, da lei stessa dichiarato, e reso con grande incisività, quando ci pone di fronte a due figure umane femminili, entrambe inesorabilmente vittime di una società ancora patriarcale: la prima, Cristi, di un ideale di perfezione fisica femminile, foriero di enormi frustrazioni e vissuti depressivi, e la seconda, Giudi, vittima anch’essa, poichè incasellata nel cliché della brava cuoca e successivamente felice per aver raggiunto finalmente lo status di “fidanzata”, per la gioia dei suoi genitori e l’accettazione della intera società a cui appartiene.

Raffaella Cavallone
Foto dalla pagina web della Compagnia

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.