Per fortuna non siamo un “Paese senza” Tomaso Montanari: in un Teatro Kismet di Bari sold out ed attentissimo, sul tema “Civiltà o barbarie” si è tenuto il secondo incontro della rassegna curata da Nicola Lagioia

Credo che il pericolo sia proprio qui. Guardate quante persone hanno votato alle amministrative e ai ballottaggi. Metà del paese non crede nella Democrazia, nel senso che non crede che la Democrazia possa cambiare la sua vita. Siamo precipitati in fondo ad una crisi culturale, in cui stiamo bollendo piano piano con il rischio che, in fondo, non ci siano le sfilate in camicia nera a piazza Venezia, ma ci sia la Polonia o l’Ungheria, che non sono cose così lontane dall’Europa di oggi, una contrazione dei diritti civili, una magistratura sotto l’esecutivo, una uscita dai valori della costituzione che avverrà piano piano, nella indifferenza di un intero Paese.” (Tomaso Montanari)

In un “paese inquieto” come l’Italia del 2024, con governi fonti di evidenti contraddizioni tra ciò che si dice e ciò che si fa, non si può far a meno di chiedersi quali siano i rischi che corriamo noi tutti. E quali speranze di un futuro degno di essere vissuto si aprono in un’epoca segnata da conflitti e trasformazioni politiche? Siamo sulle soglie di un baratro, o ci stiamo solo trasformando in qualcosa di completamente nuovo? Quali sono i percorsi affinché si possa difendere la nostra Democrazia?

Tomaso Montanari, ospite del secondo incontro della rassegna curata da Nicola LagioiaUn paese senza”, in un Teatro Kismet di Bari mai così pieno ed attento, ha provato a rispondere e questi ed altri quesiti disquisendo sul tema “Civiltà o barbarie”.

E’ stata una esperienza straordinaria aver avuto la possibilità di ascoltare lo storico dell’arte, saggista e rettore dell’Università per stranieri di Siena. Io, matematica di nascita, mi sento una infiltrata su un terreno a me molto caro, ma sicuramente più sconosciuto, quello dell’arte e della storia.

In Italia, un paese che si stima concentri – a seconda della definizione di Patrimonio culturale – dal 60% al 75% di tutti i beni artistici esistenti in ogni continente, è evidente a tutti che negli ultimi anni è stato costruito come “pensiero comune” che la cultura sia un fatto privato, legato al tempo libero o ad una tipologia di intrattenimento, mentre solo pochi anni fa la cultura era in relazione con l’impegno, come espressione di “Liberazione Personale”, un mezzo per esercitare la sovranità popolare.

Nella confusione in cui viviamo, il Premio Strega Nicola Lagioia pone a Tomaso Montanari questa semplice domanda: “Ma a cosa serve la cultura?” Una domanda ingenua, in apparenza, forse per alcuni inutile. Quando Fabio Fazio pose la stessa domanda al grande Claudio Abbado durante la trasmissione ‘Vieni via con me’, il Maestro si limitò a rispondergli: “Chi ama la cultura vuole e conoscere tutte le culture e dunque è contro il razzismo. La cultura è lo strumento per giudicare anche chi ci governa. La cultura salva. Quando si tagliano le fondamenta di una casa la casa crolla: quando si tagliano i fondi alla cultura, la cultura crolla. Con la cultura si sconfigge il disagio sociale delle persone. La cultura è far sì che i nostri figli e nipoti vadano a teatro e vivano la magia della musica. La cultura è un bene comune primario come l’acqua: i teatro le biblioteche i musei sono come tanti acquedotti.”

Montanari completa la risposta affermando che ‘per esercitare la cittadinanza e sovranità popolare non serve l’erudizione, ma la cultura perché permette di leggere il mondo, e giudicarlo’. Ma con quali strumenti? Montanari cita l’Articolo 9 della Costituzione “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.” e spiega che lo stesso relatore dell’art.9 insieme ad Aldo Moro, Concetto Marchesi, disse “La Leva Militare si è fatta per secoli, la Leva della intelligenza mai. E importa all’Italia che questa Leva si faccia.”, dimostrando che i padri della Costituente, impegnati nella ricostruzione di una Italia in ginocchio, ponessero tanta attenzione alla cultura, da fissarla indelebilmente in un articolo.

Il germe fu piantato negli anni 20 da Piero Calamandrei quando, insieme a Gaetano Salvemini e ai Fratelli Rosselli, fondò il Circolo di Cultura, creando, di fatto, uno dei primi circoli di resistenza al fascismo, dove ci si confrontava sulla politica, certo, ma soprattutto utilizzando la letteratura, la storia, la filosofia. Erano gli anni in cui Benedetto Croce diceva “si può fare antifascismo commentando, anche un sonetto di Petrarca”. Il Circolo di Cultura pose le fondamenta per la ricostruzione del nostro Paese dopo il fascismo, annientando quel periodo di pieno controllo delle coscienze anche attraverso una egemonia culturale, e costruendo l’idea che la cultura fosse lo strumento di liberazione e per la costruzione di cittadinanza. Lo stesso Antonio Gramsci indicava, nei sui scritti dal carcere, come ‘servizi pubblici intellettuali’ le biblioteche, i teatri, i musei e i giardini botanici, come istituzioni di produzione di cultura al servizio dei cittadini esattamente come l’assistenza sanitaria o la formazione scolastica.

Ma come si fa a essere cittadini davvero, non solo di nome, ma di fatto?

Attraverso una società critica e pensante, una emancipazione popolare realizzata attraverso la cultura, che inizia con la formazione scolastica, ma poi prosegue, trasformandosi in capacità personale di realizzare la propria umanità. Un sogno da realizzare: giustizia sociale come giustizia culturale. La conoscenza è l’elemento fondamentale per la sovranità.

Dà un senso di amarezza e disorientamento ascoltare Montanari mentre racconta i progetti della Costituente, in particolare perché la cultura doveva essere aperta a tutti, ma il sogno si è realizzato solo in parte. Mi sono immediatamente tornate in mente le parole che, il 23 aprile 1970, Sandro Pertini, allora Presidente della Camera, pronunciò un discorso sui valori della Resistenza e dell’antifascismo nella vita democratica del nostro Paese che credo sia il caso di riproporre integralmente.

Qui vi sono uomini che hanno lottato per la libertà dagli anni ’20 al 25 aprile 1945. Nel solco tracciato con il sacrificio della loro vita da Giacomo Matteotti, da don Minzoni, da Giovanni Amendola, dai fratelli Rosselli, da Piero Gobetti e da Antonio Gramsci, sorge e si sviluppa la Resistenza. Il fuoco che divamperà nella fiammata del 25 aprile 1945 era stato per lunghi anni alimentato sotto la cenere nelle carceri, nelle isole di deportazione, in esilio. Alla nostra mente e con un fremito di commozione e di orgoglio si presentano i nomi di patrioti già membri di questo ramo del Parlamento uccisi sotto il fascismo: Giuseppe Di Vagno, Giacomo Matteotti, Pilati, Giovanni Amendola; morti in carcere Francesco Lo Sardo e Antonio Gramsci, mio indimenticabile compagno di prigionia; spentisi in esilio Filippo Turati, Claudio Treves, Eugenio Chiesa, Giuseppe Donati, Picelli caduto in terra di Spagna, Bruno Buozzi crudelmente ucciso alla Storta.

I loro nomi sono scritti sulle pietre miliari di questo lungo e tormentato cammino, pietre miliari che sorgeranno più numerose durante la Resistenza, recando mille e mille nomi di patrioti e di partigiani caduti nella guerra di Liberazione o stroncati dalle torture e da una morte orrenda nei campi di sterminio nazisti. (…) Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che su 5.619 processi svoltisi davanti al tribunale speciale 4.644 furono celebrati contro operai e contadini. E la classe operaia partecipa agli scioperi sotto il fascismo e poi durante l’occupazione nazista, scioperi politici, non per rivendicazioni salariali, ma per combattere la dittatura e lo straniero e centinaia di questi scioperanti saranno, poi, inviati nei campi di sterminio in Germania ove molti di essi troveranno una morte atroce.

Saranno i contadini del Piemonte, di Romagna e dell’Emilia a battersi e ad assistere le formazioni partigiane. Senza questa assistenza offerta generosamente dai contadini, la guerra di Liberazione sarebbe stata molto più dura. La più nobile espressione di questa lotta e di questa generosità della classe contadina è la famiglia Cervi. E saranno sempre i figli del popolo a dar vita alle gloriose formazioni partigiane. Onorevoli colleghi, senza questa tenace lotta della classe lavoratrice – lotta che inizia dagli anni ’20 e termina il 25 aprile 1945 – non sarebbe stata possibile la Resistenza, senza la Resistenza la nostra patria sarebbe stata maggiormente umiliata dai vincitori e non avremmo avuto la Carta costituzionale e la Repubblica.

Protagonista è la classe lavoratrice che con la sua generosa partecipazione dà un contenuto popolare alla guerra di Liberazione. Ed essa diviene, così, non per concessione altrui, ma per sua virtù soggetto della storia del nostro paese. Questo posto se l’è duramente conquistato e non intende esserne spodestata. Ma, onorevoli colleghi, noi non vogliamo abbandonarci ad un vano reducismo. No. Siamo qui per porre in risalto come il popolo italiano sappia battersi quando è consapevole di battersi per una causa sua e giusta; non inferiore a nessun altro popolo. Siamo qui per riaffermare la vitalità attuale e perenne degli ideali che animarono la nostra lotta.

Questi ideali sono la libertà e la giustizia sociale, che – a mio avviso – costituirono un binomio inscindibile, l’un termine presuppone l’altro; non può esservi vera libertà senza giustizia sociale e non si avrà mai vera giustizia sociale senza libertà. E sta precisamente al Parlamento adoperarsi senza tregua perché soddisfatta sia la sete di giustizia sociale della classe lavoratrice. La libertà solo così riposerà su una base solida, la sua base naturale, e diverrà una conquista duratura ed essa sarà sentita, in tutto il suo alto valore, e considerata un bene prezioso inalienabile dal popolo lavoratore italiano”.

Parole sulle quali riflettere. E dalle quali, magari, ripartire alla vigilia di questo 25 aprile.

La seconda parte dell’incontro tra Lagioia e Montanari ha tentato di rispondere ad un’altra domanda, ingenua anche questa: a cosa serve il patrimonio culturale? Partendo dal presupposto che esiste un’unica cultura, Montanari ci ricorda che, oltre ad una vita attiva cui fa riferimento la cultura scientifica, fa parte della nostra realtà anche la vita contemplativa, il cui contributo non è meno importante perché produce benessere psicologico, coesione sociale, convivenza civile: “Queste cose non sono materiali, ma reali. Sono il nostro stare bene al mondo, cose reali che hanno a che fare con la realtà tangibile non meno di una macchina, un’arma o un assegno”.

Non ci avevo mai fatto caso, ma Montanari ha ragione quando dice che siamo sotto la dittatura del presente; pertanto, la cultura diventa quella sorta di dimensione, quella singolarità spazio-temporale che permette di liberaci dal presente, “ci permette di guardare in avanti, perché si sa guardare più lontano all’indietro”. La cultura non deve essere mai intesa solo come distrazione o evasione dalla realtà, ma, al contrario, diventa necessario leggere un libro per comprendere meglio il mondo e magari riuscire a cambiarlo. A pensarci bene, la parola Patrimonio (culturale e paesaggistico) che è nell’enunciato dell’art.9 – dice Montanari – ha a che fare con l’eredità, ma non può essere riducibile solo all’accezione venale, infatti avendo accanto a sè “culturale”, si ritorna al concetto primario, la vita contemplativa.

Ma essendo noi produttori e consumatori in moto perpetuo, la nostra vita si trasforma nella ruota di un criceto, e Montanari si domanda se possa esistere uno spazio nel quale non siamo semplici consumatori, uno spazio in cui ci si rivolge al cittadino e all’essere umano, espressione di un tempo in cui tornare in contatto con ciò che di umano resta in noi. Ebbene, quel tempo è racchiuso tutto nella contemplazione dell’arte, del bello, in una piazza rubata al traffico incessante delle auto, nella passeggiata in un museo, nel fermarsi davanti alla statua del Mosè o nell’entrare in una cattedrale. Ed è – lo affermo senza timore – esattamente quello che noi del Cirano Post tentiamo di fare da sempre, la mission che ci siamo dati dalla nostra creazione, sulle orme del messaggio di Peppino Impastato che troneggia sulla nostra home: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà“. Nel nostro tempo, dobbiamo costringerci a trovare il tempo necessario per la contemplazione, quello che è definito tempo libero, la forma più alta della attività umana che occorre proprio a ritrovare la nostra umanità, recuperare la comunione con la città e con la natura, contestando la dittatura del presente e della morte. Ecco a cosa serve il patrimonio culturale. E come già accade in alcune città, ad esempio Londra, i governi dovrebbero permettere a tutti di usufruire del patrimonio artistico e naturale in modo gratuito.

Lo so, sembra solo un bel sogno; ma se è solo questo, allora non svegliatemi.

Se la scienza osserva i processi della natura che sono soggetti al tempo, e cerca di cogliere le legge fuori dal tempo secondo cui i fenomeni si compiono, l’osservazione fisica è possibile solo là dove qualcosa accade, cioè dove un mutamento avviene e questi mutamenti vengono simboleggiati dalle formule matematiche. Le discipline umanistiche invece non hanno il compito di arrestare ciò che altrimenti fuggirebbe, ma di richiamare in vita ciò che altrimenti resterebbe morto, anziché occuparsi dei fenomeni temporali e fare in modo che il tempo si arresti, essi arretrano dove il tempo si è fermato da se e cercano di rimetterlo in moto. La ricerca del nostro passato che in quanto parla delle nostre menti è vivo. Il fine ideale della scienza sembra essere qualcosa come la competenza, quello delle discipline umanistiche è qualcosa come la saggezza.” (Erwin Panofsky Princeton)

Maurizia Limongelli
Foto di copertina dalla pagina Facebook del Teatro Kismet

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