In una serata qualunque, o forse no, nel più bel Politeama d’Italia, la Fondazione del Teatro Petruzzelli, per la rassegna concertistica 2023/2024 ha ospitato il recital dell’illustre pianista Emanuele Arciuli , attuale accademico di Santa Cecilia (una delle più antiche istituzioni musicali di tutti i tempi), oltre ad essere massimo interprete della musica del XX e del XI secolo. In un concerto senza soluzione di continuità, non essendo previsto alcun intervallo, il Maestro, ha dato il via, con tocco impalpabile, alla composizione di Franz Joseph Haydn, “Andante e variazioni in fa minore Hob:XVII:6”, una delle poche sonate composte dall’autore austriaco. Dedicata a Babette Ployer, comune amica di Mozart nonché pianista anch’essa, l’opera è tra le più note, probabilmente ispirata ad una danza popolare slava in cui sono presenti due temi differenti, malinconico il primo e gioioso il secondo, che si alternano, intrecciandosi, in un gioco di tonalità maggiore e minore reso assolutamente elegante e spiccatamente espressivo tra le mani del maestro Arciuli che chiude la sonata con un pianissimo che sfuma con delicatezza unica da lasciare la platea in un religioso silenzio per diversi istanti.
Quello che ne è seguito dopo ha dell’incredibile e del nuovo, soprattutto considerando il contesto, giustamente sottolineato come inusuale dallo stesso Maestro, del quale abbiamo apprezzato la cura con la quale ci ha presentato una delle più famose, ed a mio avviso geniale, composizioni di Frederic Rzewsky dal titolo People united will never be defeated – 36 variazioni per pianoforte sul canto popolare cileno “El pueblo unido jamas será vencido”.
Al pari di chi si approccia ad un amico, Arciuli ci confida quanto sia profondo il legame – intimo – che avverte nei confronti di questa musica e del messaggio profondo e, aggiungerei, universale, che porta con sé fornendoci, al contempo, generosamente la chiave di ascolto cui il tema principale, riconoscibilissimo al principio ed alla fine, viene stravolto nel mentre dagli stili nel quale viene riletto dal padre statunitense che riesce a passare con naturalezza dal pop al jazz, ma anche a caratterizzarlo con moltissimi contrappunti (ovvero dalla combinazione di più melodie contemporaneamente).
Ed è così che il Maestro dà vita a “Il popolo unito non sarà mai sconfitto”, una delle più note canzoni legate alla “Unidad Popolare”, la coalizione dei partiti di sinistra e di centro sinistra che sostenevano Allende durante le elezioni presidenziali del 1973 concluse tragicamente con la morte del suo leader.
Difficile, dall’ascolto delle prime note, che sembrano segnare il tempo di una marcia, non farsi trasportare nel celeberrimo motivo composto da Sergio Ortega insieme al gruppo Quilapayún ed inciso dagli Inti Illimani nella primavera del 1973, prima che il golpe ai danni di Salvador Allende perpetrato dal generale Pinochet (con la complicità della CIA) riuscisse nel suo intento. Ma le rielaborazioni di Rzewsky hanno tutt’altra timbrica, ritmica e sonorità, sono originali, accattivanti, virtuose, frutto di una sperimentazione comunicativa attraverso la quale esprimere la forte coscienza sociale e politica che però a tratti, come un pifferaio magico, riporta idealmente l’ascoltatore nelle fila degli attivisti politici di tutto il mondo, invitandoli ad unirsi idealmente al tema principale del ben noto canto. Ed in un momento storico come quello che stiamo attraversando, il solo essere investiti da una canzone che coinvolge anche con tutto ciò che essa rappresenta storicamente e politicamente, risveglia in noi il senso di appartenenza ad una comunità cui non mancherebbe molto per essere e sentirsi uniti sotto lo stesso ideale e soprattutto per agire come tale nei confronti di chi ci vuole imbavagliati.
Le ben 36 variazioni, che non sono distinguibili l’una dall’altra in quanto suonate senza soluzione di continuità per circa un’ora, mettono a dura prova l’interprete in quanto richiedono un cambio di “umore” repentino e molteplice; tecnicamente, come spiegato dal suo stesso autore, esse si presentano come “una serie di sei cicli, ciascuno dei quali composto da sei stadi in cui appaiono diverse relazioni musicali: nell’ordine: 1) eventi semplici; 2) ritmi; 3) melodie; 4) contrappunti; 5) armonie; 6) combinazioni di tutti i precedenti. Ciascuno dei cicli più lunghi sviluppa un carattere suggerito dal singolo stadio cui corrisponde, di conseguenza il terzo ciclo è lirico, il quarto tende al conflitto, il quinto alla simultaneità (questo è anche il più libero), il sesto ricapitola in modo tale che il primo stadio è un riepilogo di tutti i precedenti primi stadi, il secondo di tutti i secondi, e così via. Accanto al tema principale compaiono due canzoni in due punti diversi: la canzone rivoluzionaria italiana Bandiera Rossa, in riferimento a coloro che in Italia negli Anni ’70 aprirono le porte ai tanti in fuga dal fascismo cileno; la canzone antifascista “Solidaritätslied” di Hanns Eisler e Bertolt Brecht, a memoria del fatto che sono esistite in passato minacce analoghe a quelle presenti e che è importante imparare da quelle. La notevole lunghezza della composizione può essere un’allusione all’idea che l’unificazione dei popoli è una lunga storia e che nulla degno di essere ottenuto lo si acquista senza sforzo”.
L’assoluta attualità del testo -simbolo della democrazia cilena – dal fascino senza tempo e dal leitmotiv marcatamente riconoscibile, inganna perfettamente i suoi 51 natali, attraversa il tempo senza recare con sé il peso degli anni e questa sua forte caratteristica esaltata alla potenza dalla brillante esecuzione di Arciuli, che non tradisce fatica nel lungo spartito e ci trascina con sé in un loop storico, ci fa avviare verso l’uscita del teatro galvanizzati, vieppiù pensando alle tristementi note ingiustizie politiche che affollano quotidianamente le nostre vite.
Acclamati a furor di pubblico – incontenibile – i bis sono stati generosissimi; il Maestro ne ha eseguiti ben tre e di registro differente e di una bellezza e dolcezza eterea, “The Time curve Preludes” di William Duckworth, “Minstrels” di Claude Debussy e “Abschiedsgedanken” di Ludwig van Beethoven, quasi a volerci coccolare dopo un vissuto intenso ed impegnativo emotivamente come quello appena rievocato.
Gemma Viti
Foto di Clarissa Lapolla
per gentile concessione del Teatro