Come definire il De vulgari eloquentia… là dove ‘l sì suona, con Virginio Gazzolo, andato in scena all’Auditorium Vallisa (Compagnia Diaghilev, Teatro Studio 2024)? “Spettacolo” è espressione riduttiva. “Lezione” di letteratura, o di teatro? Sicuramente si, ma non solo. Come raccontare il carisma di un attore e la preziosità del testo dantesco (ah, se qualcuno me lo avesse letto in questo modo ai tempi del liceo!)? Come dire la ieraticità, la maschera del volto, la voce che grida e sussurra, e il guizzo dell’ironia (e ancor più dell’auto ironia)?
Lui è già sul palco, nella penombra, mentre entriamo in sala. Un libro tra le mani, un tavolo, una sedia. Nient’altro. Si respira tra il pubblico un timore reverenziale che fa abbassare i toni delle voci. Ci guarda in un modo che, se chiamasse qualcuno alla cattedra per interrogarlo, non ci meraviglieremmo. Il suo silenzio ci induce al silenzio, ma buio e silenzio svaniscono quando inizia il racconto. Il vuoto si riempie, la scena si anima mentre scorrono le pagine fintamente lette (chè qui non si legge, si declama fingendo di leggere, sia chiaro!). Le parole aprono un forziere, lasciano intravedere un tesoro.
Dante scrive tra il 1302 e il 1305, cercando quella “pantera dall’alito profumato”, cioè quella lingua capace di unificare il parlare di tutti gli italiani, convinto che l’unità linguistica sia necessaria per l’unità del popolo. Percorre la penisola analizzando ben 14 dialetti, ma nessuno sembra tanto più nobile degli altri da assurgere a lingua unificatrice. Resta un’unica strada: la poesia e l’incessante lavoro dei poeti sulla parola, capace di tessere la trama, di porre le basi per la nascita di una nazione.
Virginio Gazzolo ha una frequentazione antica e ripetuta con quest’opera, portata al Festival dantesco di Ravenna (col patrocinio dell’Accademia della Crusca) già in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Negli anni, ci confessa con ironia, ha dovuto rinunciare ad alcuni guizzi scenici (ahimè, gli hanno proibito di saltare sul tavolo, come faceva un tempo!). Ma continua a camminare tra le pagine dantesche con la familiarità di chi torna nella casa di famiglia e ripercorre la propria storia girando per le stanze in penombra.
Accade così quel piccolo miracolo che rende straordinario il teatro: l’attore si immerge nel testo, se ne riveste, lo rende vivo e aiuta il pubblico a superarne le asperità. È un’emozione grande, è un velo che si alza, è il carisma di un Maestro, una testimonianza viva di passione e rigore. Non si può che tacere, consapevoli della preziosità del momento, conservando negli occhi e nel cuore lo sguardo, le mani che artigliano l’aria, la voce, il corpo fragile percorso da una scarica di indomabile vita. Alla fine, dopo gli applausi, chiamandoci al silenzio, Virginio Gazzolo ci regala un ultimo racconto, un’ultima facezia, aggiungendo ancora qualcosa sul testo perchè se ne colga lo spirito, come se non volesse lasciarlo andare. Un ultimo dono, un’ultima perla. Non si può che essere grati per ciò che si è visto e udito. Non si può che custodire tutta questa forza e bellezza.
Imma Covino
Foto dalla pagina Facebook della Compagnia