La tradizionale lettura registica del “Rigoletto” di John Turturro fa da sfondo alla memorabile resa musicale del capolavoro verdiano al Teatro Petruzzelli di Bari

“Le Roi s’amuse” di Victor Hugo è il più gran soggetto che ho trovato finora, e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente difforme e ridicolo, internamente appassionato e pieno d’amore. In quanto al titolo, quando non si possa tenere “Le roi s’amuse” che sarebbe bello, deve essere necessariamente “La maledizione di Vallier” ossia, per essere più corto, “La maledizione”. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande.” (Giuseppe Verdi)

È tutta qui la genesi di “Rigoletto”, l’opera in tre atti, la prima della cosiddetta “trilogia popolare” completata da “Il trovatore” e “La traviata”, che Giuseppe Verdi compose su libretto di Francesco Maria Piave riprendendo quasi integralmente il dramma storico di Victor HugoIl Re si diverte (Le Roi s’amuse)” del 1832, da cui fu totalmente catturato, al punto da riuscire ad analizzare e magnificamente riportare sul pentagramma i suoi contenuti, la materia che vi viene trattata e, soprattutto, quella miriade di antinomie, contraddizioni, opposizioni e contrapposizioni presenti nell’animo del protagonista; quel che forse il Maestro non aveva preventivato era di dover subire il medesimo ostracismo che aveva colpito l’opera di Hugo.

Preceduto da spasmodica attesa, che fece dichiarare a Guido Gozzano che “nel Marzo avremo un lavoro alla Fenice – m’han detto – nuovissimo, il Rigoletto: si parla d’un capolavoro!”, l’Opera verdiana, a seguito della Prima dell’11 marzo 1851 al Teatro La Fenice di Venezia, fu come non mai oggetto di veementi giudizi discordanti, spesso addirittura antitetici, ma per lo più negativi, con la Gazette musicale de Paris che giunse a scrivere “Il Rigoletto è carente sul piano melodico; quest’opera non ha nessuna possibilità di inserirsi nel repertorio, non ha speranza di successo”, mentre il Governatore di Venezia fu ancora più tranchant nel dichiarare che “Il poeta Piave ed il celebre maestro Verdi non hanno saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità ed oscena trivialità”.

Invero, il genio di Hugo aveva posto la sua attenzione sulle dissolutezze della Corte francese, con al centro il libertinaggio di Francesco I, re di Francia, in modo sì analitico da attirarsi gli strali del pubblico, della critica e finanche della censura, che a seguito della prima parigina ne impedì la messa in scena per ben cinquant’anni (scure che, in seguito, si abbatté anche sull’opera verdiana da parte della censura austriaca), non potendosi ammettere che il regnante fosse pubblicamente paragonato ad un uomo lussurioso, immorale e lascivo, quasi un novello Don Giovanni mozartiano, affetto da una ipersessualità che lo avrebbe condotto sino a violentare la figlia del suo buffone di Corte, Triboulet, essere deforme e crudele (in cui molti rividero il Quasimodo di Notre-Dame de Paris, il capolavoro dello stesso Hugo edito solo un anno prima), incoraggiato dal suo sovrano a compiere le azioni più spregevoli, il quale, recidendo le catene che lo legavano al suo padrone, che lo aveva relegato al ruolo di lacchè, se non di schiavo, o, meglio, di ‘psychological killer’, pronto ad uccidere con l’impietosa parola chiunque il suo mandante gli indicasse, si trasforma da comparsa a protagonista del dramma, dominatore della scena e della sua stessa lucida follia, finalmente dimentico del suo precedente ruolo che ora gli occorre solo per denunciare, in tutta libertà e coscienza, le più scomode verità ed i più inconfessabili vizi del potere, un inesorabile censore – in cui certamente si rispecchiava lo stesso Hugo – che utilizza la sua penna intinta nel veleno e la sua arte attorea per inscenare, incarnandola, così da divenirne forma e manifestazione, la propria irriverente catarsi, squarciando il velo dell’ipocrisia e polverizzando la quarta parete, così da trascinare con sé anche lo spettatore in un vortice da cui non è possibile risalire se non con una rivoluzionaria nuova visione sociale.

La sensibilità di Verdi coglie immediatamente che è il buffone Triboulet – personaggio peraltro realmente esistito – il perno della pesante denuncia del drammaturgo francese e così, con la complicità del librettista Piave, dà vita al suo Rigoletto (dal francese “rigoler”, ridere, scherzare); spostando furbescamente l’azione nella ormai estinta Corte dei Gonzaga di Mantova, con il Re che si trasforma nel Duca, gli autori si possono lucidamente concedere il lusso di schernire e mettere alla berlina i costumi ottocenteschi, ancora pregni di tensioni sociali e di una visione di subalternità dell’universo femminile, costruendo, grazie ad una perfetta e passionale commistione di ricchezza melodica e potenza drammatica, che passa, senza soluzione di continuità, dal grottesco alla tragedia, un’Opera indimenticabile, irreplicabile, irraggiungibile, di impareggiabile impatto emotivo, seguendo le convinzioni del Maestro di Busseto che riteneva che “ognuno dovrebbe provare rispetto davanti all’umanità che soffre”, dominata dall’antieroe per eccellenza che, nell’istante in cui si scopre umanissimo tenutario di emozioni e sentimenti che credeva di aver definitivamente seppellito assieme alla sua dignità, leverà il capo per chiedere vendetta, vinto da un anelito di amore, onore e giustizia che, pur non concedendogli il lieto fine, lo farà assurgere ad un nuovo ruolo, finalmente unico responsabile, nel bene e nel male, della sua esistenza.

In altre parole, noi crediamo fermamente che Verdi e Piave, dando vita al loro personaggio probabilmente più disumano, abbiano costruito, scavando approfonditamente nell’animo umano, un perfetto prototipo di individuo in cui coesistono caleidoscopicamente il vizio e la virtù, il bello e il brutto, il riso e il pianto, il ghigno e il gemito, un immarcescibile modello in cui possa riconoscersi ogni uomo – anche dei nostri incerti tempi – che si faccia prendere da una profonda riflessione ed analisi interiore, una figura che, ponendosi – ancora oggi – davanti agli occhi degli spettatori al pari di un implacabile specchio, può essere individuata come fonte di studio metafisico, se non addirittura psicanalitico.

Sarà forse a causa di queste nostre personalissime convinzioni che ci siamo avvicinati con vibranti ed alte aspettative a questa ripresa dell’allestimento della Fondazione Teatro Massimo di Palermo inserita nell’annuale cartellone della Fondazione del Teatro Petruzzelli di Bari, attirati soprattutto dalla commistione tra il capolavoro verdiano e l’elevatissima sensibilità di John Turturro, dimostrata non solo nella miriade di sue memorabili interpretazioni, ma anche – e forse soprattutto – nelle sue regie cinematografiche, prima fra tutte “Passione”, il docufilm musicale del 2010 che ci consegna una retrospettiva su Napoli che nessuno mai era riuscito a concepire, un fermoimmagine che solo un occhio illuminato quanto innamorato poteva realizzare. Invece – duole dirlo -, la regia di Turturro, qui ripresa da Cecilia Ligorio, non ha riservato grandi sorprese al pubblico; per lo più succube di una troppo rigorosa ambientazione gotica, talmente dark da angustiare anche i momenti festanti, ben rappresentati dalle sinuose coreografie di Giuseppe Bonanno, il maestro italoamericano sembra talvolta perdersi dietro fitte citazioni cinematografiche, che vanno da Bernardo Bertolucci a Tim Burton, che finiscono per sminuzzare l’azione scenica, facendole perdere quella prerogativa di unità che continua ancora oggi a trasportare il pubblico in un incredibile quanto indissolubile vortice hitchcockiano ante litteram; in tal modo, talune trovate appaiono senza dubbio di grande effetto teatrale, tra cui occorre ricordare il vorticoso roteare di figure incappucciate mentre infuria la tempesta del terzo atto, assieme a tutte le scene d’insieme, come quelle dei cortigiani che trafugano l’intero palazzo occupato dalla virginea Gilda o che impediscono a Rigoletto di interrompere la violenza dell’amplesso sessuale del Duca ai danni della sua figliola, mentre altre risultano del tutto incomprensibili e stucchevoli, una su tutte la scena finale con l’apertura del sacco che non rivela la presenza del corpo di Gilda, ma di un costume rosso, mentre la figlia di Rigoletto appare dalle quinte per guadagnare – strano anche a dirsi – proprio il centro del sacco per interpretare il duetto con cui l’opera si chiude, escamotage che, di fatto, non fa che rompere il pathos di uno dei momenti più drammatici della produzione musicale di tutti i tempi. Le imponenti scene di Francesco Frigeri, che evocano la Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova, ed i costumi di Marco Piemontese, in cui – ça va sans dire – predomina il nero, talvolta ‘interrotto’ dal rosso e dal bianco, risentono del clima generale dovuto alle scelte registiche, mentre assolutamente degno di lode appare il geniale disegno luci ideato da Alessandro Carletti, che dona un tocco avveniristico ad un allestimento, infine, profondamente tradizionale.

In tale contesto, ciò che ha contraddistinto e verrà ricordato di questa edizione del Rigoletto riteniamo vada cercato non sul palco bensì nella buca dell’Orchestra dove la bacchetta verdiana d’eccezione del Maestro Renato Palumbo ci regala un’altra direzione di assoluto valore, rileggendo la partitura con un’incisività davvero sorprendente, sottolineando i tanti chiaroscuri che si celano tra le note e sviluppandone in modo più che consono le dinamiche e la scelta dei colori, così da proiettare l’Opera verso il futuro, verso un modo inedito di intendere l’esecuzione dei capolavori del passato, un’idea di Musica che condividiamo e che irrimediabilmente ci conquista ad ogni nuovo fortunato incontro; grazie a lui, ogni tassello appare perfettamente al proprio posto, con la splendida Orchestra della Fondazione Petruzzelli che offre una prova efficacissima, di altissimo valore, gareggiando in bravura con l’ottimo Coro, più che eccellentemente preparato dal suo novello direttore stabile Marco Medved, in grande evidenza, e con un cast pregevole, in cui si fanno notare il Marullo di William Hernandez ed il Monterone di Andrea Comelli, ma soprattutto lo Sparafucile di Marco Spotti. Troppo altalenante è risultato invece il Duca di Valerio Borgioni, che non sempre riesce a sposare un phisique du rôle davvero invidiabile con una presenza scenica e, soprattutto, vocale che si faccia ricordare, mentre, al contrario, assolutamente indimenticabili sono apparse le performance di George Petean, un Rigoletto memorabile, energico fisicamente e vocalmente impeccabile, capace di restituire tutte le tensioni psicologiche del tragico buffone, passando dall’ironia beffarda alla profonda disperazione, e di Giuliana Gianfaldoni, divina Gilda, capace di rendere tutti gli impeti amorosi della giovane donna con sublime eleganza, dominando con sicurezza i passi di agilità, ma trovando anche accenti drammatici convincenti e corposi, tanto che la sua aria “Caro nome che il mio cor” in finale di primo atto è stata giustamente salutata da una vera ovazione a scena aperta: entrambi hanno donato uno spessore ai loro personaggi cui raramente ci è stato dato di assistere, dimostrando cura nel canto, ma anche una totale attenzione all’aspetto mimico che appagavano totalmente il pubblico delle grandi occasioni del Petruzzelli.

Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla
per gentile concessione della Fondazione Petruzzelli

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