Film da (ri)scoprire: “C’è ancora domani”, regia di Paola Cortellesi. Chiamiamolo ancora amore.

Il cinema italiano vive ondate strane. Accade che un film faccia scuola e clamore, per poi venire copiato per i successivi quindici anni, in cui poi ci si lamenta del calo delle presenze. Eppure, sarà una congiuntura astrale particolarmente favorevole, sarà un bisogno inespresso di storie pesanti raccontate con leggerezza, se talora accade che una pellicola italiana faccia il pieno di consensi, nelle giurie e al botteghino.

Questo non sta accadendo solo in Italia. “C’è ancora domani”, esordio alla regia di Paola Cortellesi, che recita assieme a Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli, Vinicio Marchioni, è stato distribuito con un poderoso successo di pubblico in 18 Paesi di tutto il mondo. Sono ancora fresche le scene della piccola schiera di David poggiati ai piedi di Paola Cortellesi (sei vinti su candidature in pressoché ogni categoria) alla cerimonia di premiazione.

La storia, girata in bianco e nero, è quella di Delia, sposata al violento Ivano, con cui ha tre figli, nella Roma ancora città aperta, dilaniata dagli stenti, subito dopo la liberazione dal nazifascismo, in un’Italia che si prepara a vivere la prima consultazione elettorale a suffragio universale. Qui Delia si barcamena per mettere il piatto sulla tavola della famiglia, di cui fa parte pure un suocero allettato che si unisce volentieri alle umiliazioni da parte di Ivano, concedendosi radi e innocenti piaceri di straforo, tra cui una lettera misteriosa.

La scena emblematica del film è una danza, sulle note di “Nessuno” di Mina, interpretata dai Musica Nuda di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti, che in realtà cela una delle violenze perpetrate da Ivano. Ricordo il mio vicino di posto, in sala, che al primo schiaffone della scena ha riso di gusto, ma potevo percepire il suo sangue raggelarsi progressivamente man mano che la danza proseguiva.

È questo il segreto del successo del film. Ho letto decine di recensioni, più o meno centrate, più o meno blasonate, da chi ha osannato un film che non slega il nazionalpopolare dall’autoriale, a chi lo ha bollato come l’ennesimo film maccheronico vestito a festa grazie a una macchina produttiva ben alimentata.

Personalmente, penso che il pubblico abbia bisogno di non essere preso in giro, e che gli si raccontino storie che, seppur romanzate, hanno un valore condivisibile davanti a un caffè o in una classe scolastica. È facile empatizzare con Delia, trovando in lei un punto d’accesso in questa storia, con il proprio vissuto esistenziale, storico, politico, al di là di qualche buco, anche evidente, della sceneggiatura. Dubito ci fosse da aspettarsi il film concettualmente arzigogolato o un film che andasse spiegato a estimatrici e estimatori dei classici dei film neorealisti o di altri film più raffinati sull’immediato secondo dopoguerra.

Il film ha due insegnamenti davanti a sé: una storia di violenza famigliare, raccontata all’italiana, citando con deferenza Wertmüller, De Sica, Rossellini; il sapore della partecipazione popolare al futuro del Paese. La prima lezione, nelle testimonianze delle settimane immediatamente successive all’uscita del film, pare sia arrivata a compimento, per un aumento sensibile delle denunce per violenza domestica, scaturito proprio dalla visione del film anche in ambito scolastico. La seconda, visti ancora i dati preoccupanti sull’astensionismo al voto, anche in occasione delle ultime elezioni europee e amministrative, sembra avere bisogno di un altro film. O forse, di un altro Paese.

Beatrice Zippo

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