Locus minoris resistentiae o delle capacità minime di difesa concesse dal Locus Festival 2024. Capitolo I: Calcutta.

La scena indie italiana nasce intorno agli anni dieci del duemila e raccoglie musicisti e cantanti che non ambiscono ad essere prodotti dalle major né partecipano ai talent show che ogni anno provano a imporre un nuovo artista sul mercato (quest’ultimo comunque un po’ salotto delle suddette major). L’indie pop italiano accoglie artisti prodotti da piccole etichette discografiche indipendenti, appunto, che partono dal basso e che oggi – dopo poco più di una decina di anni – calcano il palco di Sanremo, dominano le playlist di Spotify, riempiono i palazzetti rimanendo spesso figli delle stesse etichette che li hanno prodotti a inizio carriera.

Calcutta è uno degli esponenti di spicco di questa corrente, l’indie italiano non è un genere con riferimenti codificati, per fortuna, ma accoglie al suo interno una spiccata varietà di voci che ama dedicarsi a testi e arrangiamenti estremamente originali. Nel 2015 Calcutta arriva nelle playlist di Spotify con il singolo Che cosa mi manchi a fare e nel 2023 – dopo tre album e molte collaborazioni con i nomi della musica italiana contemporanea come autore e cantante  – inizia un tour dedicato al nuovo disco, Relax, con circa venti date nei palazzetti e nei festival di tutta Italia, molte delle quali sold out a pochi minuti dall’apertura delle vendite: il 28 giugno 2024 Calcutta ha aperto la programmazione del Locus Festival a Bari, dove l’organizzazione ha dovuto cambiare location a causa dell’altissima richiesta di biglietti.

Calcutta, nasce a Latina nel 1989 dove inizia a suonare e a comporre i suoi pezzi e da dove nel 2012 firma il suo primo album Forse.., nel 2015 esce con il secondo album, Mainstream, lavoro che decreta l’originalità e l’universalità dei temi, delle parole e delle sonorità di questo cantautore che con il terzo album, Evergreen, riesce a farti chiamare “deficiente” quella persona a cui hai affittato un pezzo di cuore e che riesce anche a farti ripetere più e più volte che “la Tachipirina 500 se ne prendi due diventa 1000, na na na na na”.

Il concerto di Bari ha fatto sold out; nello spiazzo della Fiera del Levante eravamo 15.000, con un’età media molto bassa e punte di amatori dell’indie italiano anche cinquantenni, tutti attentissimi conoscitori dei testi della scaletta che ha raccolto pezzi di tutto il repertorio calcuttiano. Quello del 28 giugno è stato un concerto vero: tanta gente, un’unica voce a gridare le canzoni, fascette sulla fronte, top cropped, smartphone alzati, abbracci, baci, amiche strette sui pezzi più coinvolgenti, coppie in fuga verso luoghi appartati travolte da un’irresistibile erotismo alcolico, panini sporcaccioni e birrette, transenne assediate sotto il palco, traffico in tilt nelle strade intorno alla Fiera, parcheggi sold out (pure loro!) e vigili esauriti.

Ma il concerto di Calcutta è stato vero anche perché Calcutta è vero, quello che lo rende speciale è la sua capacità di parlarti proprio di quello che senti tu, tutti i giorni, Calcutta è quel cantautore che racconta la quotidianità in modo strambo, con gli arrangiamenti scanzonati che ti restano in testa mentre canti testi devastanti. Calcutta è un malinconico metropolitano, il cui ascolto è sconsigliato mentre aspetti un autobus o una metro seduto su una panchina troppo fredda perché potresti imbatterti in un’overdose di malinconia.

Calcutta ti fa innamorare sempre, non importa se sei già innamorato, non importa di chi sei innamorato, mentre ascolti Del verde tutti vogliamo vestirci da Sandra per incontrare il nostro Raimondo, tutti almeno una volta abbiamo pensato che “il sorriso è una paresi, se vedi bene”, tutti siamo caduti nella trappola dell’amore finito e abbiamo sentito che non importa se non ci amano più e che dobbiamo solo reimparare a camminare. Calcutta è il mobile di formica degli anni ‘70 che sta in cucina e ti guarda mentre fai colazione, mangi con i tuoi, studi o piangi; lui resta lì e non ti giudica neanche quando dai il peggio di te, e poiché ha fatto il suo tempo, ti fa sentire sempre a tuo agio: Calcutta e il mobile di formica degli anni ‘70 hanno la capacità di farti stare male in pace e di scomparire quando stai bene e riesci anche a far crescere il basilico sul davanzale.

Le canzoni di Calcutta sono l’aiuola di oleandro degli spartitraffico e di certi giardini cittadini che restano soli e assolati, sono la tazza di caffè sporca lasciata nel lavandino, un posacenere sbeccato, sono il racconto dell’imperfezione, sono il disegno a biro di quel luogo dell’anima dove si nasconde la luce.

Simona Simone
Foto di Umberto Lopez Photography
dalla pagina Facebook del Locus

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