Locus minoris resistentiae o delle capacità minime di difesa concesse dal Locus Festival 2024. Capitolo II: Glen Hansard.

“Viviamo in un mondo dove bisogna per forza vincere, ma penso ci sia una bellezza nel perdere che ci riporta alla realtà: non otteniamo ciò che pensiamo di volere.” (Glen Hansard)

Chi non c’era ha sciupato un’occasione perché ha perso una splendida esibizione. Il Locus Festival 2024, in questa prima fase barese, ha proposto performance di altissimo livello, dandoci, tra l’altro, l’opportunità di conoscere meglio l’elegante e molteplice Glen Hansard, cantautore irlandese espressione di tante emozioni che mi hanno permeato mentre ci avvicinavamo alla tappa al Teatro Petruzzelli del suo tour mondiale. E l’attesa non ha deluso le aspettative.

Il palco è nudo, solo quattro punti luce a bassa intensità, una batteria, un violino, le chitarre e le tastiere. L’Irlandese dal cuore d’oro ha creato da subito quella magia di cui avevo letto ovunque, forse perché ha saltato subito nella zona coperta dove di solito c’è l’orchestra per avvicinarsi al pubblico, rinnovando le sue umili origini da cantante di strada anche ora che ha all’attivo numerosi premi per i suoi brani, protagonisti di colonne sonore indimenticabili. O forse solo perché è un irlandese con una barba folta e un sorriso simpatico. Ci ha conquistato comunque quando ricorda, perché ancora fa male, quel gol di Schillaci nel 1990 di Italia-Irlanda e lo applaudiamo, lo perdoniamo per la battutina sull’esito della partita perché la sua contagiosa simpatia, insieme all’innata eleganza e grazia, rendono le sue esibizioni degli abbracci amorevoli, colmi di partecipazione e sana ironia.

Il cantautore, che si è sempre distinto per il talento naturale nel comporre brani densi di rabbia ma allo stesso tempo delicati e sul palco, non si smentisce anche questa sera al Petruzzelli, donandoci subito la dolcissima “Sure as the rain” con la voce in odore di Cohen, declinata in parte in francese e accompagnata dall’emozionante violino di Garet Quinn Redmond.

Nato nel 1970 da genitori irlandesi, all’età di soli tredici anni, Glen lascia la scuola per seguire la sua unica vera passione, cantando per le strade di Dublino, senza un soldo in tasca ma incoraggiato dal suo innato amore per la musica e dal costante appoggio della famiglia. Vivere è come scalare le montagne è il ritratto della sua vita, devi salire e devi saper cadere tenendo ben presente che perdere è fondamentale; così nel 1990 forma il suo primo gruppo, The Frames con cui pubblica il primo album nel 1991. Nel 1991 Glen conosce per la prima volta la gioia e il dolore di una effimera fama con una parte da attore nel film “The Commitments” di Alan Parker.

“La strada ti insegna tutto. Ti insegna che per farti ascoltare devi amare quello che fai, devi crederci, e i soldi che la gente ti lascia sono solo una conseguenza dell’attenzione che ti danno, e che ti devi guadagnare. Ti insegna a cantare, a usare le dinamiche della chitarra e della voce, ti insegna a coinvolgere il pubblico” dirà poi: la strada è vita, parole quanto mai appropriate a sintetizzare la incredibile vita di Glen. Sulla sua strada, complicata ma intensa di emozioni, non dimentico che Glen ha incontrato Eddy Vedder come lui racconta, uniti in un momento difficile che li ha avvicinati e fu Vedder a chiamarlo, senza conoscerlo, per sapere quali fossero le sue sensazioni, avendo attraversato lo stesso brutto momento. Da li è nata una proficua collaborazione che li porta spesso a lavorare insieme sia in studio che sui palchi.

Sul palco, contribuiscono a realizzare una intima atmosfera la batteria di Earl Harvin, che con grande sensibilità soul riesce egregiamente anche sui pezzi più scatenati, e la grande raffinatezza di Mya Audrey alle tastiere. In ogni brano, sia quello in cui il respiro scorre più lentamente che in quello in cui il cuore batte più forte, tutti siamo trascinati nelle molteplici emozioni di Hansard, vibriamo allo scorrere delle sue dita sulle corde della chitarra. Dopo la delicatezza di Sure as the rain riemerge l’anima del rock teso e arrabbiato che esplode con “The feast of Saint John”, quando si fa strada la consapevolezza che il tempo passato supera quello che resta (dal titolo del nuovo album  “All that was east is west of me now”), come se il tempo si dilatasse dalla voglia di assaporare ogni singolo istante del vivere la bellezza. 

A sorpresa, dopo alcuni brani come Down on your knees e My Little Ruin, Hansard, guidato dall’imprinting artistico che lo distingue da sempre, ci regala alcuni brani tra cui There’s No Mountain cantati senza microfono sul palco, con il pubblico che si lascia cullare solo dalla sua splendida voce e chitarra. Non può mancare la bellissima Falling slowly, con cui ha vinto l’Oscar per la miglior canzone originale per il film indipendente “Once”, film di John Carney di cui è protagonista e che gli ha cambiato la carriera, presente  nel lavoro del duo, The Swell Season, formato con la cantante e musicista ceca Markéta Irglová.

Auguro a tutti di immergersi in questa esperienza, magari sperando di averlo di nuovo sul palco del Petruzzelli, perché è stata un’esperienza unica e irripetibile. La scaletta è una eterna sorpresa: si susseguono nuovi e vecchi brani come Fitzcarraldo, Minds Made up, Ghost, Her Mercy, confermando che, come lui stesso ha sempre affermato, la scelta dei pezzi da suonare dal vivo è come un eterno divenire, un evolversi come la strada che percorriamo.

Nel vasto mondo della odierna scena musicale, Glen Hansard appartiene a una categoria in via d’estinzione, quella degli artisti capaci di concedersi al pubblico senza barriere affettive ma che fa sempre più fatica a emergere. Partecipare ad un suo concerto live è una esperienza che supera i confini strettamente musicali dell’arte ma, forte della gavetta fatta per le strade di Dublino, è fonte per lui di ispirazione.

Ho imparato a perdere. Ho preso tanti di quei calci in culo nella mia vita. Viviamo in un mondo dove bisogna ottenere per forza la vittoria, raggiungere qualcosa, ma penso che la cosa straordinaria sia che c’è una tale bellezza nel perdere, una bellezza che alla fine ci riporta alla realtà del mondo che non è il dover ottenere ciò che pensi di volere. Questa canzone parla proprio di questo, ovvero della ricerca della bellezza nel saper perdere e poi qui c’è una questione anche spirituale, più si acquisisce conoscenza spirituale più dura si fa la vita in un certo senso. Quando arriviamo al punto della bellezza, come ha scritto Leonard, più il viaggio diventa difficile … più scavi in ogni pezzo della tua vita, più incontri ombre perché, quando sei nella luce, le ombre ti si presentano ancora di più. Non è un viaggio facile ma bisogna farlo, non ci sono alternative.” (Glen Hansard)

Maurizia Limongelli
Foto di Anna Agrusti Photography
dalla pagina Facebook del Locus

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.