“Eternal Love”, il progetto musicale di Roberto Ottaviano alla ricerca di una identità universale da cui ripartire, continua ad irradiare accecante luce e conquista anche il pubblico del Festival “Bari in Jazz 2024”

Voglio essere un cuore pensante. Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole, come il grano che cresce o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso, se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo.”(Etty Hillesum)

Veder nascere un progetto e riuscire a seguirne le successive fasi, seppur da semplice ammiratore, ti fa sentire parte di un’esperienza unica, ti assurge al ruolo – invero immeritato – di testimone di un’epifania di luce e di bellezza; quando poi, come nel caso dell’“Eternal Love” del Maestro Roberto Ottaviano, la luce si fa accecante e la bellezza ipnotica, la sensazione di appagamento dei sensi che si prova è difficilmente riportabile sulla fredda pagina digitale.

Ottaviano è tornato ad esibirsi nel capoluogo pugliese con il gruppo che lui stesso definisce – giustamente – storico, nonostante abbia solo sei anni di vita e tre album alle spalle, il primo dallo stesso titolo del progetto seguito dal doppio “Resonance & Rhapsodies”, pubblicato sempre dall’etichetta salentina Dodicilune e consacrato miglior disco del 2020 da Top Jazz, e “People”, cui si è aggiunto proprio nelle ultime ore “What Love – Sonic Holograms”, allegato al numero di Musica Jazz attualmente in edicola, registrazione live di un indimenticabile concerto, con organico allargato ad eccezionali musicisti, tenutosi a Bari nell’ambito della rassegna “Musiche Corsare” dell’associazione ‘Nel Gioco del Jazz’ (già recensito su queste stesse pagine dal nostro Gaetano de Gennaro: https://www.ciranopost.com/2023/05/02/gran-finale-per-musiche-corsare-il-festival-dellassociazione-nel-gioco-del-jazz-con-what-love-il-nuovo-esaltante-progetto-del-maestro-roberto-ottaviano/), una scelta editoriale di una rivista tra le più specializzate nel campo che si pone come ulteriore fiore all’occhiello nella magnifica carriera del musicista barese.

Quando la line up originaria, formata, oltre che dallo stesso Ottaviano, da Marco Colonna, Alexander Hawkins, Giovanni Maier e Zeno De Rossi, è salita sul palco installato nel cortile dell’Istituto Salesiano Redentore di Bari, è stato subito chiaro a tutti i presenti che si sarebbe creata nuovamente la magia di quel viaggio ideale nel cuore della cultura e della musica africana, di quel – per usare parole dello stesso Maestro – “bagno mistico in cui il jazz si fa infine Musica Totale, ma soprattutto travalica l’idea fine a se stessa di fare musica, per scavare a fondo nel nostro ego e capire se esiste un “noi” universale da cui ripartire”; in altre parole, gli spettatori avrebbero potuto godere di un altro tassello di un’opera essenziale, necessaria, indispensabile, imprescindibile per barcamenarsi tra le altissime e trascinanti onde innalzatesi sulle note di brani epici composti da miti della musica di tutti i tempi che rispondono al nome di Charlie Haden, Dewey Redman, Dollar Brand, Elton Dean, Don Cherry e John Coltrane, nel mezzo dei quali non sfiguravano creazioni dello stesso Ottaviano, che dimostravano – qualora ve ne fosse stato ancora bisogno – quella elevatissima sensibilità compositiva che non contempla alcun limite alla creatività e che è il personalissimo marchio di fabbrica del nostro.

Quel che Ottaviano fa con il suo “Eternal Love” è riuscire a superare le barriere del tempo e dello spazio, annullare le lontananze, le diversità, le dissomiglianze, le discordanze, senza mai costringersi a bypassarle o ad ignorarle, ma infilandosi in quelle discrepanze per allargarne le fenditure sino a farne entrare abbagliante luce e, infine, vincerne totalmente le resistenze sino a frantumarle; in tale ottica, il suo progetto si erge come uno degli ultimi baluardi di una concezione della musica ed, ancor prima, dell’esistenza e della natura umana che cercava e trovava il proprio scopo di vita nella conoscenza, consapevolezza e comprensione dell’altro, nel riconoscerlo per riconoscersi, per identificarsi non più come un’unità singola e finita, bensì come l’infinitesimale particella di una infinita cellula, finalmente comprendendo che vi può essere senso solo nel sentirsi parte di quel tutto.

In un’epoca in cui ogni cosa attorno a noi trasuda disumanità, tanto che viene da chiedersi dove abbiamo sbagliato, dove ci siamo persi, quando abbiamo rinunciato al grado di civiltà e libertà che avevamo a fatica conquistato, quando abbiamo vilmente abdicato, lasciando che le invasioni barbariche ci conquistassero, invece di lottare sino allo stremo delle nostre forze, quantomeno nella speranza di consegnare un mondo migliore a quanti sarebbero venuti dopo di noi, la voce ‘ribelle’ di Ottaviano si leva forte e chiara, a partire da quella iniziale dichiarazione d’intenti esternata nella dedica “ai miei figli e a tutti i figli dell’umanità, che possano perdonarci per come gli stiamo consegnando questo mondo”.

Il competente pubblico del Festival “Bari in Jazz 2024” ha potuto ancora una volta apprezzare le doti di una band eccelsa, cinque superbe menti pensanti, con il contrabbasso di Giovanni Maier e la batteria di Zeno De Rossi cuore pulsante dalla ritmica perfetta, mai scontata e ripetitiva ma sempre propositiva, il clarinetto basso di Marco Colonna che esprimeva e manifestava un interplay con il band leader che aveva dell’incredibile, quasi fossero due proiezioni della stessa anima, una sorta di dio Giano al servizio della musica, ed il pianoforte di Alexander Hawkins che si involava – da par suo – su vette difficilmente raggiungibili.

E su tutti, con tutti e al servizio di tutti, Roberto Ottaviano con il suo mitico sax soprano, imprescindibile Maestro pronto a segnare la via per poi lasciare piena libertà ai suoi eccezionali compagni, in un caleidoscopico gioco di rimandi in cui si realizzava la sua personalissima rivoluzione, rendendo ogni concetto ed anelito della sua anima perfettamente comprensibili ad una attentissima platea, cui trasmetteva ogni emozione in modo profondamente indelebile, riuscendo a tradurle in musica, proferendole nella lingua della smisurata bellezza, perfettamente consapevole della luminosa quanto illuminante lezione – di cui si fa ideale promulgatore – lasciataci in eredità da Émile Verhaeren: “Coloro che vivono d’amore, vivono d’eterno”.

Pasquale Attolico
Foto di Gaetano de Gennaro

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